L’IMPEGNO DI UNA GENERAZIONE: LA STORIA DEL GRUPPO SAN FILIPPO

La ricostruzione collettiva del passato del centro giovanile racconta di spazi e di persone che per decenni hanno immaginato e costruito il futuro della nostra città

Camminando per piazza Roma oggi, tra ristoranti di lusso e auto parcheggiate, è molto difficile immaginare che fino a qualche decennio fa qui si trovava la rivisteria Centofiori, divenuta poi il Rock club . Sembra ugualmente impossibile pensare che, dove ora c’è il parcheggio dell’ospedale Valduce, esisteva una chiesa, quella di San Filippo Neri e Luigi Gonzaga. E proprio negli spazi del suo oratorio, per quasi un secolo, i giovani comaschi hanno trovato un luogo di aggregazione importante.

 

Questa storia inizia durante una notte d’estate del 1977, in una di quelle sere calde che aprono il periodo delle vacanze. Verso mezzanotte, l’allora assessore comunale di Como Santino Cairoli esce dal municipio, al termine di un consiglio comunale. La notte per lui sarà ancora lunga: lo aspetta un viaggio verso Bormio, per raggiungere la famiglia, partita in giornata per l’inizio delle ferie. Prima di dirigersi verso l’auto si ferma a parlare con l’allora capo dei vigili di Como. «Dovremmo dare una mano a quel prete degli oratori che segue i giovani, ha una grande passione per quello che fa», gli confida. Poi lo saluta e parte. Il viaggio si interromperà nel cuore della notte, quando per una sbandata fatale l’auto finirà inghiottita dal lago. Mesi dopo, con l’inizio dell’autunno, don Battista Galli riceve una visita dal capo dei vigili, il quale gli confida il testamento non scritto lasciatogli dal consigliere comunale «lo considero come un impegno che mi ha affidato». Così, da una promessa in una notte di mezza estate, nasce il gruppo San Filippo. 

Per capire meglio il ruolo che ha avuto questo gruppo di ragazzi e ragazze occorre però fare un passo indietro. Nel 1885, tra le mura dell’Oratorio di San Filippo Neri di Como, nasce il Circolo Educativo Alessandro Volta, che proponeva attività tra cui l’istruzione religiosa, conferenze culturali e scientifiche, biblioteca, gite e convegni.  Nel 1893 sorgono la chiesa di San Filippo Neri e San Luigi Gonzaga, insieme alla tipografia vescovile del “Gabinetto Cattolico”, che ospitava il Circolo di Studenti della città. Nel 1900 a Panighera, appena sotto il Palanzone, viene aperta la “casa di campagna” di San Filippo.


Qualche anno dopo, nel 1926, l’oratorio di S.Filippo Neri viene affidato ai padri Barnabiti, diventando un punto di riferimento durante gli anni del fascismo, educando i giovani alla libertà e alla responsabilità. Nel libro “In cammino nel tempo”, Camillo Magatti, frequentatore dell’oratorio fin dagli anni ‘30 racconta: «Non c’era una formazione sociale e politica adatta alla nostra età, anche perché quei tempi bui non lo permettevano. Solo i più grandi di noi parlavano della situazione politica e ascoltavano Radio Londra». Nel suo racconto una parte importante è riservata al ricordo di Panighera. «Ci sono andato per tre o quattro anni prima che scoppiasse la guerra, ci si divertiva molto. Poi, durante gli anni del fascismo si è trasformata anche in un rifugio per i partigiani e per tutti coloro che erano ricercati».

Nel 1974 i padri Barnabiti decidono di lasciare la gestione dell’oratorio e il vescovo di allora, monsignor Ferraroni, ne affida la gestione a don Battista Galli, all’epoca parroco a Monastero di Berbenno, in provincia di Sondrio. Arrivato a Como, don Battista vive in seminario e inizia a insegnare al liceo Giovio, dove da subito incontra molti ragazzi interessati agli argomenti affrontati in classe, aperti a discussioni stimolanti. «Ricordo di non aver impiegato troppo tempo per rendermi conto che con molti di loro non sarebbe stato impossibile integrare l’ora di religione con altri momenti di incontro, di riflessione e di amicizia», racconta il prete. Così quando, dopo circa un anno e mezzo, gli viene offerta la possibilità di andare ad abitare a San Filippo, don Battista si trasferisce e inizia a pensare alla possibile organizzazione dell’intera struttura «molto grande in sé, ma frammentata», composta da tre grandi edifici e un cinema, oltre a vari spazi usati solo parzialmente. Don Battista decide di creare un piccolo spazio di incontro pomeridiano per i suoi studenti. Nasce così il primo gruppo “San Filippo” costituito principalmente da alunni del liceo scientifico, che inizialmente si incontrano per fare due chiacchere e per la messa del sabato pomeriggio. Tra i primi ragazzi che frequentano il gruppo c’è il figlio di un assessore comunale, che parla al padre del progetto di don Battista, soprattutto dell’idea di valorizzare il campo sportivo.


E qui torniamo all’inizio della nostra storia, a quella tragica sera di agosto che lascerà al capo dei vigili la sensazione di aver ricevuto un lascito e una missione. Don Battista ottiene così i permessi per creare un piccolo parcheggio nel cortile, in modo da poter contare su un’entrata attorno a cui organizzare le attività di San Filippo e nasce la prima iniziativa strutturata: la scuola di teologia per laici.

SCUOLA DI TEOLOGIA

L’8 gennaio 1979 parte la scuola di teologia per laici, che prevedeva due incontri alla settimana, il lunedì e il martedì, per due anni. La prima lezione di dogmatica è tenuta da mons. Eliseo Ruffini, seguito da don Bruno Maggioni per il corso di scrittura, don Dante Lanfranconi per le lezioni di morale e a partire dal corso successivo si aggiunge mons. Franco Festorazzi, che negli anni ‘60 fu uno dei primi a studiare i primi capitoli della genesi. L’iniziativa riscuote da subito un grande successo «120 iscritti senza neanche poi tanta pubblicità se non dei manifesti tipo lenzuolo appesi nelle parrocchie. Segno che la necessità di una formazione per laici c’era davvero», scrive Laura Legnani. 

«Io ci ho messo un po’ prima a decidermi di andare al San Filippo racconta Gabriele Grisoni, che all’epoca frequentava il liceo Giovio -, poi un venerdì pomeriggio mi sono deciso e sono andato». Era il 1979, un’epoca dove il fermento politico si percepiva fortemente anche nel dibattito studentesco. La partecipazione democratica giovanile era ostacolata dalla lotta tra “rosso” e “nero”, polarizzazione che di fatto impediva una vera e propria partecipazione alla vita politica. Per decenni la scuola ha approfondito tematiche legate ai misteri della fede, alle innovazioni tecnologiche e a quelle del mercato, formando casalinghe, pensionati, studenti universitari, professionisti e operai. Nel 1978 il Corriere della Provincia scriveva che di fronte alla crisi del mondo, la teologia può aiutare a trovare una chiave d’interpretazione per l’esistenza, oltre che ad essere fonte di speranza e di fiducia. 

Con la scuola nasce anche la proposta di settimane di approfondimento in montagna, dove si faceva esperienza di vita comune e durante la quale venivano proposti incontri teologici per giovani. I temi erano vari e il corso partiva proprio dalle domande dei singoli «per questo era accattivante, della serie “Cristo sì ma chiesa no”, molto anni ‘70, sicuramente, ma il contenuto delle lezioni era davvero stimolante –  ci racconta Gabriele -. La scuola ha avuto un grande successo perché c’era l’esigenza di approfondire dei temi. Erano anni in cui sicuramente da capire c’era tanto. Insomma, movimenti di tanti tipi, molto significativi a livello sociale e politico. Eravamo pieni di domande».

Scuola di Mondialità, Don Giuseppe Grampa parla di Levinas, a Panighera

SCUOLA SOCIALE

Il 6 ottobre 1979, in un soleggiato pomeriggio d’autunno si tiene il primo incontro della scuola sociale. Con circa una sessantina di iscritti il corso offriva un’opportunità per approfondire tematiche politiche, economiche e sociali, in chiave etica. La scuola era aperta a tutti, persone più o meno vicine alla fede cattolica, ma accomunate dall’interesse di costruire un mondo più solidale. 

Nella sua prima edizione, la scuola prevedeva un biennio di studio il sabato e la domenica, mentre a partire da quella successiva il programma proponeva incontri serali mensili e serate di lavoro divisi per gruppi, per favorire la socializzazione. Le attività erano coordinate da 5 animatori: Paolo Bustaffa, Adriano Sampietro, Paolo Donegani, don Giuseppe Corti e Maurizio Masciocchi. «Il senso di cittadinanza l’ho appreso proprio da questa esperienza – scrive Mario Lucini -. Per imparare a essere non consumatori di un luogo, ma responsabili appartenenti a una comunità che vive in un contesto ben preciso da amare e rispettare, con una connotazione storica da legare al futuro, con legami forti ed emozioni condivise».

La scuola sociale era molto ricca anche per la capacità di don Battista di coltivare i legami sia con persone molto colte e competenti, sia con persone comuni. Le attività del primo anno prevedevano uno studio storico, con lezioni frontali e spazi di dibattito. L’anno successivo, invece, si incontravano le realtà attive sul territorio, attraverso il confronto con politici, sindacalisti, imprenditori e tanti altri. «Nell ‘85 mi hanno proposto di candidarmi in circoscrizione, mi sono lanciato e sono stato lì per 18 anni. Fare il sindaco poi è stato il culmine del mio percorso iniziato a S.Filippo. Un po’ perché mi piaceva la parte amministrativa della città, ma anche perché volevo impegnarmi in una realtà di cui sentivo di far parte», conclude Mario.

Scuola di Mondialità, giochi di simulazione con amici immigrati, 1993

SCUOLA VERSO IL VOLONTARIATO

La scuola di volontariato prevedeva un percorso di due anni con un’esplicita finalità formativa, rivolta principalmente agli adolescenti tra i 16 e i 19 anni. «L’impressione che ho avuto chiacchierando con i ragazzi è che i giovani vivono oggi una grande mancanza di modelli in cui identificarsi. Parlo di persone vicine, reali», scrive Chiara Butti. Proprio per questo la scuola riscuote un grande successo, vantando tra 150 e 200 iscritti, che tra incontri teorici e trasferte verso esperienze concrete di volontariato, venivano formati  alla solidarietà, lavorando sull’ascolto reciproco, sull’importanza del gioco, sulla gestione dei conflitti e sull’incontro con individualità diverse dalla propria. 

Il primo anno si focalizzava principalmente sulla costruzione di relazioni con gli altri e le altre. Il secondo anno, invece, era più esperienziale e offriva degli spunti per riflettere sui temi della povertà, della solidarietà, del volontariato strutturato nelle associazioni, dando anche l’occasione di conoscere di persona esperienze di volontariato a livello nazionale, tra cui la cooperativa sociale AEPER di Bergamo, l’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano e il Sermig di Torino. «Lo sbocco naturale di questa esperienza è stata poi la creazione del Bandolo, che è nato qualche anno più tardi ci racconta Sergio Besseghini -. Ricordo in particolare un fine settimana a Panighera, che è stato molto coinvolgente e che ha permesso di creare un gruppo molto affiatato. Questo tipo di esperienze hanno determinato delle scelte di vita importanti e hanno permesso di creare delle amicizie che tutt’ora durano negli anni».

RADIO

Se una radio è libera, ma libera veramente / mi piace anche di più, perché libera la mente cantava Eugenio Finardi nel 1976, enfatizzando il ruolo della radio come strumento di informazione libera e indipendente. È proprio da questa idea di partecipazione che nel 1981 un gruppo di liceali e universitari appassionati di musica e desiderosi di sperimentare linguaggi nuovi si buttano su Radio Nova. «Alcuni di noi, pur senza esperienza e con una certa ingenuità aderirono all’invito mettendo in gioco tutta la freschezza, l’entusiasmo e la libertà proprie dei vent’anni», racconta Carlo Guffanti, nel libro “In cammino nel tempo. Il centro giovanile San Filippo a Como”. 

Il progetto era inizialmente gestito da una coppia, i coniugi Giussani che nel tempo avevano perso collaboratori. Essendo la redazione situata vicino alla chiesa di S.Filippo, i due avevano chiesto a don Battista un aiuto per rinvigorire la radio. Ben presto il progetto diventò uno dei mezzi di informazione più impegnato a livello culturale, insieme a Radio Popolario, altro progetto d’informazione indipendente e strettamente legato a Radio Popolare. Un ulteriore passaggio è quando Radio Nova ha aderito al circuito di radio Marconi. 

L’obiettivo era quello di fare cultura attraverso la musica del periodo, carica di significato. Venivano commentati i brani musicali e i testi venivano riproposti sia in italiano sia in inglese per coglierne gli aspetti poetici e sociali. «In quei tempi stava dilagando la musica reggae e mi ricordo di aver fatto una puntata parlando di Bob Marley e Peter Tosh, analizzando le radici culturali e spirituali di questo movimento nato in Jamaica, il rastafarianesimo – racconta Carlo a Fuorifuoco -.  Il tutto era molto artigianale: due o tre microfoni nella scaletta di trasmissione, un mixer, qualche strumento per la riproduzione audio, un telefono vicino al monitor nella sala regia. I dischi li compravamo noi o ce li portavamo da casa. Si faceva tanta manovalanza, coprendo turni di regia, leggendo i notiziari, preparando le rassegne stampa e registrando i nastri musicali che scorrevano nelle ore notturne».

Radio Nova era una delle poche radio che proponeva delle alternative alla musica dance, che ai tempi era quella più mainstream. I concerti e le iniziative musicali a Como erano ben poche e l’alternativa era quella di spostarsi nei negozi di dischi di Varese o di Milano per sentire musica nuova. L’unica eccezione c’è nel ‘79, quando il Setificio, che era stato inaugurato da poco, ospita il sassofonista Anthony Braxtone in un concerto free jazz e i Lyonesse, un gruppo di musica folk-rock francese. 

A Como, in quel periodo, qualche locale provava a tener viva la cultura musicale, anche se in scala ridotta. Carlo ci racconta della vita sotterranea dell’attuale pasticceria Aida, in piazza S.Fedele, dove in una cripta si svolgevano concerti di musica acustica e cita anche la libreria Centofiori, per alcuni un luogo di perdizione e per altri uno spazio fertile per lo scambio culturale, dove poter ascoltare buona musica e dove trovare libri interessanti. Negli anni questi spazi di ritrovo sono stati chiusi «Io insieme ad altri ero molto vicino a questi gruppi di sinistra non violenta. Non ci sono mai stati momenti particolarmente euforici in città, ma siamo passati comunque dall’avere delle opportunità di aggregazione musicale al doverci spostare sempre a Milano o a Varese», conclude Carlo.

GIORNALINO

All’inizio degli anni ‘80 nasce Humus, un giornalino interno al gruppo, ideato per rimanere aggiornati sulle attività di S.Filippo e per avere degli spunti di riflessione. «[…]Ma la terra, ciò che permette al bosco di vivere, ciò che fa del bosco molto di più di un semplice insieme di alberi è una sola, è la medesima buona terra per tutti, il nutrimento di tutti, è l’humus». Qui sotto trovi le copertine di alcune uscite.

COSA RIMANE

Di S.Filippo rimane Il Bandolo, nome dell’associazione riconosciuta a livello giuridico. «Volevamo occuparci di malati psichici e per entrare nell’ospedale psichiatrico S.Martino siamo dovuti diventare associazione, anche per avere le autorizzazioni per fare attività al di fuori della struttura. A noi non piaceva l’idea di formalizzarci, né di far parte delle istituzioni, ma a un certo punto abbiamo dovuto farlo», ci racconta Anna Ostinelli. Il nome del gruppo sta a indicare il bandolo della matassa, cioè il capo del filo della matassa e l’idea era quella di ritrovarlo sia nella testa delle persone sia nel mondo. Le attività proposte erano quindi legate al disagio psichico e alla scuola di mondialità, coinvolgendo le persone immigrate che iniziavano ad arrivare nel territorio comasco dopo l’‘89. «La gente non sapeva niente e la società era molto più razzista di oggi», continua Anna.

La scuola di mondialità proponeva quindi dei momenti di incontro tra persone diverse, per imparare a conoscersi oltre i pregiudizi e lo stesso veniva fatto con le persone con disagio psichico. Nel 1989 il gruppo del Bandolo entra per la prima volta nel manicomio S.Martino di Como, che «conteneva 2000 persone di cui nessuno sapeva niente – racconta Anna -. I pazienti ricoverati passavano le giornate a guardare fuori dalla finestra e nessuno parlava con loro, tranne durante i pasti. Una vita vuota». Fino al 2001, anno in cui il manicomio è stato chiuso, il gruppo ha provato a proporre attività alternative, anche per creare un’interazione con il resto della cittadinanza. Ancora adesso il Bandolo propone attività simili, cercando di mettere in contatto persone diverse, che normalmente non si incontrerebbero, attraverso laboratori di acquerello.

 

«Negli anni ero passato gradualmente alla Caritas, che in quel periodo entrava in una stagione di grande impegno e responsabilità – ci racconta don Battista -. Di sicuro questo ha indebolito S.Filippo in quanto tale con le sue proposte, anche perché la scuola di teologia per laici e la scuola sociale sono state assimilate dalla pastorale diocesana». In quegli anni la struttura in via Dante divenne anche un punto strategico per l’ospedale Valduce e per questo l’edificio venne demolito integralmente, per farne un parcheggio. Nel 1986 le attività del gruppo si spostano al Cardinal Ferrari. «In un primo momento sembrava che la chiesa sarebbe stata salvata, in realtà hanno fatto finta di salvare la facciata per poi demolire anche quella, non so bene con quali astuzie o geonorme. Credo che questo non faccia onore né alla città, né alla chiesa, né alla storia di S.Filippo», conclude don Battista.

Di quello che è stato S.Filippo rimane un ricordo forte nella memoria di chi ha vissuto quelle esperienze, così forti e stimolanti e che per via dei tempi che cambiano e delle contingenze della vita sono ormai un lontano ricordo. Col passare del tempo i membri del gruppo si sono sposati e hanno messo su famiglia, continuando a portare avanti il proprio impegno di fede, sociale e politico anche nei loro paesi, forti dell’esperienza fatta in gioventù. «S.Filippo esiste e resiste ancora oggi. Esiste nelle amicizie che si sono mantenute, quindi soprattutto nelle persone e non tanto in una struttura che non c’è più. Non esiste in una vera e propria attività, che è ridottissima, ma riguarda soprattutto chi porta avanti ancora quei valori nel proprio lavoro e nella vita quotidiana», conclude don Battista.

Maria Colonna
Emma Besseghini

«La storia di S.Filippo, come quella di tante altre esperienze simili, è quella di un luogo e delle persone che l’hanno animato, al cui centro sono state poste le nuove generazioni. Sembra così banale dirlo. Eppure proprio questa piccola verità è ciò che oggi sembra sfuggirci. Guardando indietro chi ha avuto la fortuna di conoscere quell’esperienza sente ancora il profumo della passione per il futuro che si respirava in quelle stanze, in quelle attività, in quelle preghiere. Dove la convinzione che nelle giovani vite fosse nascosto un tesoro era palpabile e alimentava una speranza moderata ma tenace. 

A San Filippo era chiaro che il compito degli adulti – in questo senso, veri educatori – era quello di dedicare tutta la cura e le attenzioni necessarie per permettere, a quel tesoro, di svilupparsi e fiorire. Persino nelle forme e nei modi che non era possibile prevedere. Così come era chiaro che l’autorità cercava e trovava la sua legittimazione in un’incarnazione che la ricostituiva nel momento storico in cui veniva messa in discussione. Un’autorità capace di autorizzare, piuttosto che di controllare, i giovani. […] Un luogo di libertà, dunque, simile a un campo dove si seminava con larghezza. Senza badare troppo a misurare ogni azione o a studiare l’efficacia di quello che si faceva.[…] La crisi che stiamo attraversando, infatti, ha a che fare – tanto a livello macro, quanto a livello micro – proprio con la scomparsa di questo movimento. Non è forse vero che abbiamo un grande debito che pesa proprio sulle nuove generazioni? Che non riusciamo più a fare figli perché ci paiono un affare troppo complicato? Che tra i pochi bambini e giovani che abbiamo, la quota di coloro che sono poveri è incredibilmente elevata? Che non abbiamo nessuna cura verso l’eredità che lasciamo ai nostri figli in termini ambientali e urbanistici? Insomma, non è forse vero che nessuno sembra più curarsi delle nuove generazioni? Se così non fosse, in Italia non ci sarebbero più di 2 milioni di giovani che non lavorano e non studiano e che rischiano di vedere bruciato il loro futuro prima ancora che inizi. La diagnosi, dunque, è per molti aspetti infausta. Anche se sarebbe un errore perdere la speranza, come San Filippo ci ha insegnato. Per questo non è retorico fermarsi a ricordare quell’esperienza memorabile che seppe fecondare la mia generazione. Senza chiedere nulla in cambio. E questo non per onorare delle ceneri, ma per riaccendere, se possibile, il fuoco».  Mauro Magatti, professore di Sociologia della Globalizzazione presso l’Università cattolica di Milano ne  “Il tempo del cammino. Il centro giovanile S.Filippo a Como”, p. 15

Le foto sono state prese dal libro “Il tempo del cammino. Il centro giovanile S.Filippo a Como” editore Progetti e Percorsi, 2015