ROTTE INVISIBILI

 

Una volta terminato il game nei Balcani occidentali dopo settimane o mesi di tentativi chi arriva a Trieste può seguire diverse strade. Attraversare tutto il nord Italia, dal Friuli alla Liguria, e provare a entrare in Francia da Ventimiglia. Fare lo stesso, e fermarsi più su, in una Val di Susa che è confine come terra di lotte. Oppure, e sempre di più, può decidere di proseguire il suo viaggio verso nord transitando da Como. Questo affermano i dati che abbiamo consultato, ma lo stesso fa fatica a emergere dai racconti dei volontari e degli operatori che lavorano sul campo, nelle strade, nei luoghi di accoglienza. Sembra che l’invisibilità del confine, così impressa nelle menti di chi abita questa città, si depositi come un mantello su chi cerca di attraversarlo. Abbiamo quindi deciso, con la serie Rotte invisibili, di andare alla ricerca di storie e testimonianze, per cercare di indagare a fondo le ragioni di questo apparente mistero.

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Capitolo 2 – Stazione Centrale: dove le rotte cominciano a vedersi

Siamo stati a Milano in compagnia di chi presta assistenza e soccorso ai transitanti in stazione Centrale e abbiamo parlato con le volontarie di Rete Milano. Sono tanti quelli che provengono dalla rotta balcanica per poi proseguire il viaggio. Passano anche per Como, alcuni senza nemmeno saperlo.

Arriviamo a Milano in piazza Duca d’Aosta, di fronte alla stazione Centrale, verso le otto di sera. È un lunedì di fine gennaio e il freddo si fa sentire. Un poliziotto in borghese allontana alcuni ragazzi servendosi di una paletta spartitraffico al grido di “vagabondi!”. Si avvicina a noi e ci consiglia di mettere via i cellulari: “arrivano in un attimo e li prendono, è per questo che siamo qui” ci dice. A fargli compagnia, davanti all’ingresso della stazione, una camionetta e due volanti.

La serata è tranquilla. Ci sono molti frequentatori che ci si aspetterebbe di trovare: studenti, famiglie con bambini, pendolari di ogni tipo. Ma anche dei personaggi particolari, abbrutiti dalla vita di strada. Una stazione come le altre, insomma.

Davanti a uno degli stand dei negozi all’ingresso della stazione operatori e operatrici dell’Ong International Rescue Committee (IRC), stagliandosi sullo sfondo colorato di grandi marchi d’alta moda, si preparano per distribuire del tè caldo. Insieme all’associazione Rete Milano, IRC si occupa di prestare soccorso e assistenza a chi viene trovato in stazione. In particolare fornisce informazioni chiave per le esigenze di base, supporto all’accesso a generi di prima necessità e soccorso psicologico per i casi più vulnerabili, oltre che indirizzare verso i servizi del territorio.


Ci fermano molte persone. “Avete cibo? chai?”, che è come alcuni di loro chiamano il tè. La maggior parte viene dall’Africa del nord e in stazione ci orbita da tempo. Ci sono però anche alcuni transitanti, che passano da queste parti ma non ci si fermano, diretti altrove.

H. è tra questi. Siede ginocchia a terra ai piedi della grande mela di Pistoletto. È afghano, dimostra circa vent’anni e porta con sé un sacco a pelo, un sottile materassino nero e uno zaino beige, chiari segni del viaggio che ha già compiuto e dovrà continuare. “Sono passato da Udine, poi sono stato a Como per un mese prima che la questura mi indirizzasse a Milano”, racconta attraverso la mediazione di un uomo pakistano che traduce dal pashtun.


Altri due ragazzi afghani si aggiungono alla conversazione. A. e B., di 24 e 22 anni, raccontano a fatica il tragitto che li ha portati in stazione Centrale. Passati dai Balcani, hanno raggiunto Trieste e da lì Milano e poi Svizzera, Germania, Francia e Belgio. Una volta arrivati vengono però respinti in Italia, dove probabilmente erano state prese loro le impronte digitali.

Funziona così il regolamento di Dublino: se l’identificazione avviene in un Paese membro dell’Unione Europea, la procedura di accoglienza deve essere svolta in quel Paese. Non importa ciò che vuole la persona o dove si trovi, o se effettivamente desideri rimanere o raggiungere parenti o amici in altri Stati – come nel caso di A. e B. – e non importa neppure se vengano effettivamente rispettati i diritti legali e il benessere personale di chi si trova in questo limbo giuridico.

Il regolamento Dublino III, entrato in vigore il 1° gennaio 2014 e meglio noto come “Dublino III”, stabilisce quale Stato debba farsi carico della richiesta di asilo presentata in uno degli Stati membri dell’Unione Europea da un cittadino di un Paese terzo o da un apolide. In base al regolamento ogni domanda deve essere esaminata da un solo Stato membro, la cui competenza è determinata dal ruolo svolto in relazione all’ingresso e al soggiorno del richiedente nel territorio dell’Unione. La richiesta di asilo per un migrante proveniente da un Paese terzo deve essere fatta nel primo Paese UE in cui mette piede, dove dovrebbe essere identificato dalle forze dell’ordine, lasciando uno spazio estremamente ridotto alle preferenze dei singoli. Come spiega Open Migration, un cittadino straniero entrato in maniera irregolare in Italia che poi si sia recato in Germania presentando richiesta di asilo dovrebbe, teoricamente, essere trasferito in Italia, laddove emergano effettivi segni del suo passaggio (impronte digitali, biglietti del treno o elementi riscontrati dal racconto del richiedente). Il richiedente ha la possibilità di circolare per tre mesi all’interno dell’Unione, ma senza potersi trasferire legalmente in nessun altro Stato per lavorare, studiare o vivere stabilmente. Il regolamento è stato ampiamente criticato soprattutto perché non è in grado di garantire i diritti dei rifugiati attraverso una protezione equa, efficiente ed efficace. Negli ultimi anni Bruxelles ha lavorato a un “Nuovo patto su migrazioni e asilo”, su cui è stato raggiunto un accordo politico nel 2023 dal Parlamento e dal Consiglio dell’UE. Questo accordo non modifica la logica fondante “Dublino III” e si basa su un inasprimento delle misure volte all’esclusione dei migranti, mancando di un’adeguata attenzione ai diritti fondamentali, come spiegato in modo esaustivo da Openpolis. Un approccio che continua a porre i transitanti nella condizione di decidere di rimanere nell’invisibilità per non farsi identificare nei Paesi di primo ingresso, nella speranza di avere maggiori possibilità di raggiungere i Paesi dell’Unione in cui vorrebbero costruirsi stabilmente un futuro.

M. invece dice di essere originario della Turchia, mentre si scalda con un bicchiere di tè e fuma una sigaretta. Racconta di essere stato un anno in un campo profughi in un cantone della Svizzera tedesca. “La Svizzera è un paese vile, non è quello che sembra”, leggiamo sul display del suo telefono, dove si aiuta con un traduttore vocale. “Potevano dirlo subito che non mi avrebbero accolto, invece di lasciarmi rinchiuso in una prigione per un anno prima di rimandarmi in Croazia”. 

M. mostra agli operatori e alle operatrici di IRC il test di Mantoux che serve a garantire di non essere affetti da tubercolosi.Lo fornisce su prenotazione il centro Sammartini, poco distante dalla stazione, il punto d’accesso in città per i servizi dedicati ad adulti senza dimora e in situazioni di grave marginalità.

Il risultato del test arriva in genere dopo una settimana. Se negativo, si può accedere a quello che viene chiamato “mezzanino”, uno dei dormitori aperti per l’emergenza freddo che si trova negli spazi della metropolitana della stazione Centrale, e che accoglie anche persone senza documenti. I tempi lunghi del test non sono ottimali per chi è solo di passaggio, ma negli ultimi giorni sembra che l’accesso sia possibile anche senza risultato, con l’accompagnamento delle forze dell’ordine.

Fino a settembre erano aperti due dormitori in corso di Porta Vigentina e via San Marco, messi a disposizione dal Comune anche per l’accoglienza dei transitanti. Al momento il primo è chiuso. Il secondo, invece, rimane aperto solo per gli stanziali. 

È giusto che l’accoglienza sia sulle spalle del volontariato?” 

Un’alternativa a questo sistema carente e inadeguato ad affrontare il fenomeno prova ad offrirla Rete Milano, che mette a disposizione un appartamento con cinque posti in Via Forlanini affittato da Aler. È qui che vengono indirizzati A. e B., i due giovani afghani respinti dal Belgio. Potranno rimanerci per una o al massimo due notti: oltre le quarantotto ore scatta infatti l’obbligo di comunicare la presenza della persona ospitata alle autorità. 

Rete Milano si occupa di dare prima assistenza soprattutto in stazione Centrale a profughi transitanti, molti dei quali provenienti dalla rotta balcanica, con cibo e vestiti. Le persone intercettate sono in maggioranza afghani e iraniani, poi siriani e curdo iracheni, in viaggio da mesi o anni e spesso diretti in Germania e Francia. Un percorso a tappe che dai Paesi di origine continua nei Balcani e che oltre a Milano coinvolge Trieste, Udine, a volte Como e spesso la Svizzera.

“È abbastanza raro che succeda di ricevere richieste di persone che dicono di essere tornate a Milano perché sono stati bloccati e riammessi”, racconta Fausta Omodeo, presidente di Rete Milano. “Ma ci sono tanti afghani di cui rileviamo la presenza in stazione Centrale che non sempre ci chiedono aiuto, perché probabilmente hanno i loro contatti o non si fidano”.

Se è vero che a Rete Milano arrivano soprattutto le richieste di afghani e iraniani, questo dato non può essere preso come elemento statistico particolarmente esplicativo. “Può essere semplicemente dovuto al fatto che questi gruppi hanno una rete più strutturata di persone che ci conoscono, più soldi e un cellulare”, precisa Fausta. “Tra i tanti cittadini stranieri che abbiamo incontrato quelli più in difficoltà sono sicuramente gli eritrei, perché non hanno un cellulare e spesso neanche i contatti”. 

Il gruppo Whatsapp utilizzato dall’associazione per gestire le segnalazioni e organizzare le uscite in stazione Centrale conta un centinaio di persone tra volontarie volontarie, operatori operatrici e mediatori. I messaggi sono giornalieri e la sera è il momento in cui tutti sono più attivi per cercare una sistemazione alle persone che incontrano.

Oltre all’appartamento in Via Forlanini, l’associazione si avvale dell’aiuto di numerose famiglie ospitanti che mettono a disposizione le loro case, così da offrire un riparo temporaneo e un po’ di calore a chi passa dalla città ma non si vuole fermare.

Laura Davì, photo editor e giornalista, è tra queste. Vive con sua figlia non molto lontano da viale Forlanini. “Cerco di aiutare in tutti i modi: vado nel guardaroba solidale dell’associazione, faccio raccolta fondi con i mezzi che ho. Ma devo dire che quello che mi appaga di più umanamente è accogliere a casa mia, dove passano sopratutto minorenni. Sono davvero delle fioriture di umanità, dei rapporti che sbocciano e che poi durano nel tempo. Con molti di quelli che sono passati da qui, infatti, sono ancora in contatto”. 

C’è spazio anche per delle riflessioni più sistemiche nelle parole di Laura. Dice che i minorenni a Milano sono rimbalzati dalle questure e da quelli che dovrebbero essere luoghi di accoglienza. “Anche quando vengono accolti aggiunge sono buttati in posti dove spesso non fanno niente e sono lasciati a se stessi. Mi ricordo di un ragazzo del Gambia che è passato dal guardaroba e che era finito in una situazione simile. Ora fortunatamente ha cominciato ad andare a scuola”.

Alcuni ragazzi transitanti sanno bene dove vogliono arrivare perché hanno parenti o amici, soprattutto in Germania e Svizzera. Altre mete sono la Francia e la Gran Bretagna. “Tanti prendono il treno da Milano spiega Laura e passano con una facilità incredibile. Altri hanno la sfortuna di essere fermati al confine e, se minori a cui non sono ancora state prese le impronte, dovrebbero essere accolti, ma non sempre è così”.

 


Partendo da Milano in treno, è inevitabile che i transitanti passino per Como. Lo impongono i tracciati dei binari, le tappe delle carrozze. E così non è necessario mettere piede in città. Ma forse c’è anche un altro motivo, più sottile, che aiuta a comprendere perché i flussi non si vedano nel capoluogo lariano. Laura ce lo spiega con una delle sue tante storie, che ha come protagonista un ragazzo sudanese, del Darfur, che è stato anni fa nel CPR di via Corelli. “Dopo essere arrivato sulle coste della Calabria è stato spostato a Roma. Voleva andare in Gran Bretagna ma non sapeva come. Diceva di essere stato catapultato in un paese di cui non conosceva la lingua e la geografia, così diverse da dove veniva. In stazione faceva fatica a capire dove andassero i treni, cosa volesse dire ciò che leggeva sui tabelloni. Ha capito poi che Milano, per posizione e importanza, era la città dove andare. Se questo succede per Milano conclude Laura figuriamoci per Como. Se lungo il tuo tragitto devi immaginare un posto dove andare Como non sai nemmeno dove stia”.

L’inadeguatezza dei servizi viene sopperita dalle associazioni di liberi cittadini come Rete Milano, le cui famiglie solo tra ottobre e novembre hanno accolto 127 persone. “Ma è giusto che l’accoglienza sia sulle spalle del volontariato?”.

Daniele Molteni
Riccardo Soriano
Editing: Tommaso Siviero
Foto: Daniele Molteni