La gioia della festa: il ritmo dei corpi liberi in lotta per spazi e socialità


Como è una città che invecchia e si richiude sempre più in sé stessa. L’età media degli abitanti è infatti passata dai 45,2 anni del 2003 ai 47,3 del 2023, seguendo un trend che è ancora più pronunciato nel resto della Lombardia (da 42,7 a 46 nello stesso periodo), fatto che denuncia un problema generalizzato. Ma una scintilla ogni tanto si accende: per le strade della città, lo scorso 20 aprile, il celebre 4/20 divenuto anniversario simbolico antiproibizionista, si è tenuta una street parade. Una manifestazione, un corteo al ritmo di musica, che rilancia istanze politiche tramite la gioia della festa.

In tutta Italia questa forma di protesta è tornata in voga a seguito del cosiddetto “Decreto rave”, una delle prime iniziative del governo Meloni, un provvedimento funzionale a inasprire la criminalizzazione dell’organizzazione e della promozione di rave party, le feste techno non autorizzate. Questa volontà si è concretizzata nell’introduzione nel Codice penale dell’articolo 633-bis relativo all’occupazione di terreni o edifici, che ha portato il rave party da essere reato contro l’incolumità pubblica a reato contro il patrimonio, rendendolo più facilmente contestabile. L’approvazione di tali modifiche, estremamente ideologiche, è avvenuta attraverso un processo di verifica parlamentare velocizzato (e quindi semplificato) dalla retorica emergenziale, che ha visto l’utilizzo di strumenti straordinari come la fiducia e la “ghigliottina”.

Le manifestazioni per gli spazi

A seguito dell’approvazione del decreto sono state organizzate numerose proteste, il cui focus era far leva sugli aspetti che il governo criticava e in particolare la musica techno, vista come simbolo di degrado. In quest’ambito nasce quello che è, al momento, il più grande movimento di street parade in Italia, Smash Repression. Ma la pratica della street parade non è nata così di recente, al punto che perfino a Como, nel giugno del 2008, se ne è tenuta una. Erano altri tempi, i reclami politici erano diversi, ma ciò evidenzia come forme di movimento di questo tipo non siano un’assoluta novità nel comasco.

La manifestazione del 20 aprile scorso, organizzata da un gruppo di giovanə comaschə, è stata chiamata “Reclaim the lake”. “Uno slogan di socialità e riappropriazione di spazi abitativi, contesti di divertimento e luoghi di scambio e condivisione. Una street parade che, contrariamente alla narrazione che le ‘autorità’ (poliziesche o comunali che siano) cercano costantemente di far passare, è molto più che una festa, ma un momento politico che rivendichiamo con forza”, si legge nel comunicato trasmesso ai giornali. Il resto del manifesto tocca poi varie istanze, dall’ecologismo alla questione degli spazi, dalla gentrificazione all’antiproibizionismo, legate tra loro dal principio dell’intersezionalità, ovvero l’idea che queste tematiche non siano isolate ma collegate tra loro.

Locandina dell’evento “reclaime the lake”

Il tema degli spazi, della loro carenza e della loro inacessibilità per la cittadinanza, è quello che spicca più degli altri. Infatti, una delle critiche che più spesso vengono fatte alla città è la sua crescente gentrificazione e, soprattutto, turistificazione. “C’è una censura completa, una totale intolleranza per tutte quelle che non sono attività culturalmente nulle: l’idea di spazio è subordinata completamente alla possibilità di poter pagare o di essere una determinata classe sociale di persone” – dice Pietro, uno degli organizzatori –. “Gli spazi per le cosiddette marginalità, a livello sia musicale che umano, non esistono”. La mancanza di luoghi di socialità ed espressione personale è ormai un aspetto strutturale della conformazione cittadina, dove non esiste più accesso senza consumo. Questo è il simbolo di una città che cerca la sua vitalità altrove, in persone che vengono da fuori (ma solo se dotate di moneta sonante da spendere). Pietro continua la sua denuncia: “Tutto il centro è turistificato e allo stesso tempo non c’è alcuno spazio per la vita studentesca: per me questa è la definizione di gentrificazione, cioè il fatto che la città diventi inaccessibile a chi dovrebbe viverla”.

La critica pone l’attenzione anche su altre categorie sociali a cui sono maggiormente preclusi gli spazi: “Prima qua venivano le persone marginalizzate, soprattutto razzializzate, a trovare uno spazio di svago; adesso è la prima volta in tre mesi che vedo una rete [da pallavolo, ndr] tirata; ed è tirata perché ci siamo noi”, continua Pietro, riferendosi ad un gruppo che gioca nei giardini a lato del Parcheggio Ippocastano, luogo del preconcentramento della street parade. Questo discorso si innesta su una più larga accusa rivolta alla giunta comunale, nel suo trattamento nei confronti della popolazione migrante (o in generale di origine straniera), sempre più marginalizzata e criminalizzata. Sempre il comunicato sottolinea come “dimentichiamo costantemente che Como è città di frontiera, eppure chiudiamo i dormitori e costruiamo cancelli per impedire alle persone a cui viene negato qualunque riparo di trovare soluzioni anche precarie e provvisorie”. Esemplificativo è il caso della proposta di porre dei cancelli sul portico della Chiesa di San Francesco per colpire i senza fissa dimora che ci trovavano rifugio (oltre che gli skaters che lo usavano come luogo per allenarsi). Pietro conclude il suo discorso sugli spazi comaschi con un giudizio lapidario: “Non ci sono spazi dove dormire, non ci sono spazi dove studiare, non ci sono spazi dove divertirsi, e nel momento in cui tu li crei diventi un criminale”.


Il rave come atto politico oltre le logiche di consumo

Fare street parade significa dunque costruire uno spazio per sé e per lə altrə che sia libero da schemi, sicuro e di cura. Solo corpi liberi e musica: ne rivendichiamo la politicità”, si legge ancora nel comunicato, che sottolinea come la forma scelta non sia secondaria per il progetto politico. Giorgio, membro di una delle crew, i collettivi musicali che hanno animato il corteo, ribadisce il concetto, evidenziandone anche l’aspetto coinvolgente: “L’entusiasmo di questo evento può portare le persone a interessarsi ancora di più. In generale però la situazione è questa: creare eventi che raggiungano persone, e nel divertimento è più facile raggiungere. Anche in questo modo la musica può essere un metodo di aggregazione e politico allo stesso tempo: c’è della rabbia dentro, ma viene manifestata in forma di festa e fare musica è il miglior modo per festeggiare”.

“Il rave è un atto politico di per sé” – racconta Benedetta, un’altra organizzatrice della manifestazione e produttrice di un podcast proprio sull’argomento, dal titolo “C’era una volta un rave –. “Significa relazionarsi con lo spazio che ci circonda al di fuori di logiche imposte legalmente e anche a livello di mercato”. È una pratica che ha la finalità, già detta, di rivitalizzare luoghi abbandonati o trascurati, creando un’esperienza comunitaria, libera da rapporti gerarchici, in cui ognuno è parte integrante dell’esperienza. Un contesto in cui ci sono sicuramente persone che dedicano tempo e fatica alla manifestazione ma fuori da logiche di profitto. È qualcosa che nasce dal sentimento ancestrale di stare insieme, un bisogno che deve essere riconosciuto, liberamente come in un rave oppure in un surrogato subordinato al pagamento, compromesso che è spesso obbligato ai fini di soddisfare la necessità di socialità.

“Una street diventa così il mezzo per rivendicare questo tipo di valori attraverso modalità chiaramente diverse”, continua Benedetta. In questo caso chiedendo permessi e seguendo eventuali ordinanze, ma al contempo mantenendo la centralità della musica e l’uso dei corpi “per ballare e camminare sul suolo della nostra città che di solito è così lontana da quel tipo di divertimento”, sottolinea. Così il diritto all’intrattenimento, pari a quelli sociali o quelli del lavoro, viene slegato dal tema del consumo; e la libertà e la sicurezza altrui non sono, come spesso viene denunciato, messi in secondo piano, ma centrali: “Io sono parte integrante della realtà che mi circonda – conclude Benedetta – se c’è qualcosa che non va, io intervengo, perché non c’è qualcuno che interviene per me”.


La libertà della cura

Queste idee di libertà e sicurezza si collegano al fondamentale tema della cura, ovvero l’idea che l’inclusione e lo stare bene delle persone non venga, come ormai è visione comune, dalla libertà intesa come bolla individuale sacra e inviolabile, bensì dall’attenzione reciproca. Su questi temi interviene anche Margherita, la cui voce, nel corso della street parade, viene più volte trasmessa tramite una registrazione per comunicare pratiche safe per interagire con le altre persone, nello specifico per evitare molestie e atti predatori. Su questo tema si inserisce anche un altro degli interventi trasmessi durante la manifestazione, in cui vengono denunciate le scarse modalità di supporto per prevenire e aiutare vittime di violenza e l’assenza a Como di uno spazio che si occupi di queste persone, che ascolti e supporti: “Prendiamo posizione di fronte i comportamenti discriminatori e alle microviolenze a cui assistiamo ogni giorno. Se domani sono io, se domani non torno, distruggi tutto. Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima”, esclama l’intervento registrato citando in chiusura la poesia di Cristina Torres Cáceres dal titolo originale “Si mañana no vuelvo”, divenuta tristemente celebre dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin. “Ci tenevamo a creare uno spazio che fosse inclusivo e accessibile a tutte le persone – racconta Margherita – e che fosse un corteo di riappropriazione degli spazi in cui ognuno potesse sentirsi a proprio agio”. 

Importante per chi manifesta, oltre alle pratiche, è il tema degli spazi safer: luoghi che tentano di essere i più accoglienti e sicuri possibile per chi li attraversa, pur nella consapevolezza dell’impossibilità di creare spazi completamente liberi dalla violenza. La rivendicazione di questo tipo di spazi non viene però portata avanti con richieste di stampo securitario – anche in considerazione dei limiti presentati dalle forze dell’ordine quando si tratta di questi temi e della loro tendenza a ignorare o sminuire il fenomeno – ma offrendo alle persone gli strumenti per capire come comportarsi: “Vogliamo delle campagne di sensibilizzazione, vogliamo che venga fatta educazione sessuale nelle scuole, vogliamo delle città che siano costruite a misura di tutte le soggettività”, continua Margherita. Proprio perché ancora ci sono questi limiti nella pratica della città, la street parade ha portato avanti questi valori. “Anche se è stato solo per un giorno penso che si sia riuscito a rompere il vetro della città vetrina che è Como”.


Non è (ancora) una città per giovani?

Al tema degli spazi, ma anche a quello delle forme di fare festa, si lega quello della socialità a Como, che influenza profondamente il rapporto dei giovani con la città. Nel comunicato si denuncia come “non sono solo i bar il problema di una città invivibile: anche i luoghi di cultura sono sotto attacco, ormai da decenni, da parte della politica locale. I cinema indipendenti sono costantemente in pericolo, i luoghi di aggregazione controculturale ricevono periodicamente minacce di sfratto”. Questo sentimento di repressione culturale non si limita ai luoghi, ma sono le singole persone che, nell’inesistenza di stimoli e nell’impossibilità di espressione, sviluppano un’alienazione che li porta a scappare. Su questo parla ancora Pietro: “Vivere a Como è vedersi progressivamente ridurre gli spazi da una élite borghese classista e, man mano che si cresce, essere messo di fronte alla scelta: andarsene, essere marginali, oppure sposare una serie di valori in cui non ci possiamo rispecchiare in nessun modo”.

Questo sentimento è condiviso da molti, tra cui Giorgio che sottolinea come Como non offra spazi di socialità (soprattutto serali) che non implichino il consumo di cibo o bevande in un esercizio commerciale. “Quando ho vissuto a Como ho sofferto della mancanza di spazi e del fatto che non ci fosse un nucleo di aggregazione vero e proprio. La sensazione che ho avuto, condivisa con altre persone comasche, è che sia più facile abbandonare la città piuttosto che viverla. Quando parli di Como ai comaschi che non sono qui ti dicono che l’hanno lasciata perché non hanno speranza di poter realizzare qualcosa: noi stiamo provando come un salmone ad andare controcorrente”.

Anche Giorgia, un’altra delle organizzatrici, condivide questa frustrazione: “Mi chiedo sempre se abbia senso rimanere in questa città. Como è una città che dice: o ti adegui o te ne vai. Io ho 18 anni, me ne sono andata appena ho potuto, perché sento questa città che mi rifiuta, che mi dice che non vado bene, che mi dice che non è il mio posto. È invece bello che ci sia un’alternativa, che riusciamo a costruire un’alternativa; è estremamente difficile perché la repressione è tantissima ma guardandomi attorno oggi dico che ne vale la pena, che è giusto essere qui e avere il coraggio di andare avanti”, conclude Giorgia, con una nota positiva stimolata da questo percorso politico.

La reazione istituzionale della città alla manifestazione è stata di critiche cariche di stereotipi, sull’ormai classico tema del degrado usato come strumento per spaventare la “gente per bene”, e quattro denunce per imbrattamento. Le polemiche pubbliche sono venute sia da Fratelli d’Italia, in particolare tramite il suo capogruppo in consiglio comunale, Lorenzo Cantaluppi, che dalla sua formazione giovanile, Gioventù Nazionale, che dalla voce del suo coordinatore di Como, Emanuele Marone, ha denunciato, appunto, il supposto terribile degrado causato. A queste critiche e a quelle portate avanti dalle varie testate locali, l’assemblea organizzativa ha risposto con un altro comunicato, in cui definiscono la street parade del 20 aprile come l’apertura del “vaso di Pandora” e rifiutano i rimproveri di carattere organizzativo, criticando la strumentalizzazione narrativa e l’amministrazione, definita “incapace di coordinare la gestione di un corteo che era stato autorizzato dalla Questura e che […] non ha visto accadere nulla di contrario a quanto concordato”.

Ci sono state quindi diverse critiche, ma non solo. “Abbiamo ricevuto complimenti per la protesta che portiamo avanti, segno che le politiche del sindaco Rapinese non sono sgradite solo a coloro che vengono bollati come ‘emarginati’ e ‘devianti’, ma anche a gran parte della cittadinanza; abbiamo visto gente ballare dai balconi e passanti sorridere al nostro passaggio, divertiti e incuriositi da un’iniziativa diversa dagli standard omologanti a cui l’amministrazione locale ci ha abituati”, si legge ancora nell’ultimo comunicato. Forse c’è ancora speranza che, dal basso, qualcosa si muova, per far tornare a vivere una città che da tempo sembra sempre più lasciarsi morire.

Jacopo Pozzoni

Editing: Daniele Molteni
Foto: Jacopo Pozzoni