Seven Winters in Tehran – Il corpo delle donne come campo di battaglia

È il 16 settembre del 2022. Masha Jina Amini, studentessa ventiduenne curdo-iraniana di Saqqez, muore in un ospedale di Teheran dopo tre giorni di coma. Il 13 settembre era stata portata in una caserma dalla polizia morale della Repubblica islamica, il gasht-e ershad, perché accusata di aver indossato impropriamente l’hijab. A partire dalla sua città natale, le proteste si moltiplicano in tutto l’Iran e proseguono per alcuni mesi. Donne e uomini insieme si riversano in piazza al grido “Jin, Jiyan, Azadî”, “Donna, vita, libertà!” in curdo. La risposta delle autorità non si fa attendere. Secondo un report d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite del 13 settembre 2024 il numero delle persone uccise dalle forze di sicurezza ammonterebbe a 551, tra cui 48 donne e 68 bambini, a cui si aggiungono arresti e detenzioni arbitrarie, torture e maltrattamenti, stupri e altre forme di violenza sessuale e di genere.
La storia di Reyhaneh Jabbari: un processo di coscientizzazione
A poco più di due anni di distanza, lo scorso 19 settembre è stato proiettato al cinema Astra di Como il primo lungometraggio della regista tedesca Steffi Niederzoll Seven Winters in Teheran. Il documentario racconta la storia di Reyhaneh Jabbari, un’altra giovane donna vittima della repressione patriarcale istituzionalizzata della Repubblica Islamica. È questo il trait d’union che unisce la storia delle due ragazze, tra il passato e il presente dell’oppressione e delle lotte per combatterla.
La storia ha inizio nella primavera del 2007. Reyhaneh Jabbari ha 19 anni, vive a Teheran in una famiglia di classe media e fa la decoratrice d’interni. Un uomo la sente parlare al telefono con un cliente di un allestimento. Si presenta: è un chirurgo plastico, si chiama Morteza Sarbandi e vuole proporle di curare gli spazi di una clinica che sta per aprire. Reyhaneh è al settimo cielo e i due si accordano per incontrarsi di lì a poco per definire i dettagli. L’appuntamento, però, è una trappola. Sarbandi tenta di stuprarla, ma la giovane riesce a resistere pugnalandolo con un coltello da cucina.
Sarbandi, che si scopre essere un ex impiegato dei servizi segreti, muore a causa delle ferite riportate. Per Reyhaneh è l’inizio di un calvario: confessioni estorte con la tortura e un processo farsa in cui il giudice la incalza con domande tendenziose come: “perché non hai urlato per farti sentire dai vicini?”,“perché non sei scappata dalla finestra?”. L’esito è prevedibile: una condanna a morte per impiccagione secondo la logica della vendetta di sangue, evitabile solo con il perdono della famiglia Sarbandi.
Il documentario mescola interviste a familiari e compagne di cella di Reyhaneh con estratti delle lettere che scriveva in carcere. Sullo sfondo una Teheran percorsa da cittadine e cittadini comuni e automobili perse nel traffico, che danno una sensazione di una comunità che oscilla tra l’indifferenza e la rassegnazione.
Un’atmosfera, questa, che stride con la tenacia dimostrata dalle due figure cardine della storia: da una parte la madre Shole Pakravan che fa di tutto per cercare di salvare la vita della figlia, dal tentativo di dialogo con la famiglia Sarbandi alla denuncia del caso sui media occidentali; dall’altro Reyhaneh stessa che tra le mura delle prigioni di Ervin, Shar-e rey e Rajai Shahr incontra donne dall’estrazione sociale molto diversa dalla sua, con esistenze segnate da prostituzione, tossicodipendenza, delinquenza comune. “Erano donne che ero solita ignorare prima” confessa in una delle sue lettere “mentre ora, per la prima volta nella mia vita, riesco ad associare loro un senso di gentilezza”.
Reyhaneh diventa un punto di riferimento fra le detenute. La sua è, sì, una discesa negli inferi, che diventa però anche una forza di riscatto collettiva. “Proverò a far sentire la mia voce al pubblico con tutto il cuore, per tutte quelle donne che sono state stuprate o esposte a simili pericoli, anche se dovesse costarmi la vita”, scrive in un’altra lettera.
Quando la famiglia Sarbandi apre alla possibilità di perdonare la ragazza a condizione che ritratti la sua versione dei fatti, Shole cerca di convincerla: “cosa può spingere una persona a non provare a salvare la propria vita?” si chiede. Ma Reyhaneh è irremovibile: “sopportare quest’ingiustizia è più difficile che affrontare la morte”. E l’esecuzione quindi arriva, il 25 ottobre del 2014, tra il dolore dei familiari e la condanna internazionale. La madre Shole nel 2017 si rifugia in Germania, dove viene raggiunta dalle sue figlie nel 2021, e da lì porta avanti la battaglia di Reyhaneh, aiutando donne e uomini a sottrarsi dalla repressione del loro paese.

La voce di Somayeh
E come la moltitudine si incarnava circa dieci anni fa nel corpo e nella voce di Reyhaneh, più di recente si è riversata sulle strade dopo la morte di Jina. Malgrado quest’ultimo movimento abbia avuto un grosso riflusso, complici la forte repressione governativa e la mancanza di coordinazione interna, ha segnato comunque una tappa importante. Come faceva notare su Jacobin nel 2022 Paola Rivetti: “è il primo movimento che, con radicalità di azione e pensiero, per la prima volta dall’inizio degli anni Ottanta (quando il velo fu reso obbligatorio) ripoliticizza la questione del controllo del corpo delle donne”, segno di uno scollamento sempre più forte tra società civile e stato. “Sempre più autoritario, lo stato non concede ma reprime; sempre più radicali, le proteste indicano ogni volta una crepa più grande nella fiducia verso le istituzioni”, chiosava Rivetti.
Per provare a capire come agisce la repressione e l’entità di queste crepe, la proiezione al Cinema Astra è stata accompagnata dall’intervento della film maker e film editor iraniana Somayeh Haghnegahdar, esule in Italia dal 2022 a causa della censura subita dalla Repubblica islamica. Nelle parole di Somayeh, intervenuta a margine della proiezione e stimolata da tantissime domande del pubblico, emerge una nota positiva sul futuro. “Il movimento ‘donna, vita, libertà’ ha portato nuove speranze tra la popolazione iraniana, fuori e dentro i confini del paese, portando in piazza sia uomini che donne, fianco a fianco”, ha detto, sottolineando l’importanza di continuare a parlarne. A questo proposito, ha citato l’azione dell’Associazione dei Cineasti Indipendenti Iraniani (IIFMA), a cui anche lei ha preso parte, che all’ultima Mostra del cinema di Venezia ha esposto uno striscione con le parole “I diritti degli artisti sono uguali ai diritti umani”, “Donna Vita Libertà” e “Fermate subito l’esecuzione”.
Somayeh ha raccontato la sua storia, analoga a quella di altri artisti e artiste iraniane: “sono scappata in Italia con la mia famiglia perché in Iran, a causa della censura, non potevo più lavorare e come me ci sono tante altre persone. Ed è un peccato perché negli ultimi anni la cinematografia iraniana ha ricevuto numerosi premi, ma la repressione non permette di valorizzare i talenti che abbiamo”. Una cosa evidente anche soffermandosi sui titoli di coda del film di Niederzoll: tanti di coloro che hanno collaborato alla realizzazione sono indicati come anonymous. Un anonimato reso necessario dalla paura di subire ripercussioni.
Durante la serata si è parlato anche di Maysoon Majidi e Marjan Jamali, giovani iraniane di 28 e 29 anni, arrivate sulle coste della Calabria dalla Turchia alla fine del 2023 e là ancora trattenute con l’accusa di essere delle scafiste. Un copione già visto, con la ricerca di facili capri espiatori da parte delle autorità italiane che non permettono di capire le vere dinamiche dietro ai flussi migratori. Una beffa ulteriore nel caso delle due donne, scappate da un contesto oppressivo per ritrovarsi tra le spire di un’altra oppressione di carattere giudiziario nel paese che si aspettavano le avrebbe accolte. “Non sono esperta di cosa accade nei tribunali italiani – ha detto Somayeh – ma questa mi pare una vicenda assurda. Maysoon è una regista teatrale e attrice curdo-iraniana che si è spesa molto per il movimento ‘donna, vita, libertà’ e per questo ha dovuto lasciare il paese. Marjan è una madre che scappa da una condizione di violenza familiare e istituzionale. Trovo veramente assurdo che siano accusate di essere delle scafiste”.
C’è stato spazio, infine, anche per una problematizzazione del sostegno occidentale alle lotte delle donne iraniane. Una ragazza del pubblico ha chiesto, infatti, se le mobilitazioni e l’interesse dei media occidentali mostrati nel documentario non possano aver contribuito a una strumentalizzazione di segno islamofobico e orientalista. “La mia personale opinione è che sia difficile conciliare la fede religiosa con la liberazione femminile – ha risposto Somayeh, che ha poi aggiunto – però qui non si tratta di islamofobia, ma si tratta di riconoscere che a prescindere dalla religione che professa o meno, ogni donna deve essere libera di fare quello che vuole con il proprio corpo. Che si tratti di indossare un velo o di abortire, il punto non è costringere a farlo o non farlo, ma permettere alle donne di decidere liberamente”.
Riccardo Soriano
Editing: Daniele Molteni