FOOD FOR PROFIT

La recensione

di Emma Besseghini

Il 18 aprile alle 20.45 al cinema Astra si è tenuta la proiezione di “Food for profit”, la docu-inchiesta indipendente prodotta da Mescalito film e realizzata dalla giornalista Giulia Innocenzi, insieme al filmmaker Pablo D’Ambrosi. Al termine della proiezione si è tenuto un momento di dibattito in collegamento online con il co-regista, che ha risposto alle domande del pubblico.


“Food for profit” racconta di un’indagine che si snoda attraverso diverse città europee, entrando negli allevamenti intensivi in Polonia, Italia, Spagna e Germania. L’obiettivo del documentario è chiaro: raccontare la situazione attuale degli allevamenti che vengono finanziati anche grazie a contributi pubblici, attraverso la Politica Agricola Comune (PAC)

varata nel 1962 la Politica Agricola Comune è una politica comune a tutti i paesi dell’Unione Europea, gestita e finanziata a livello europeo con le risorse del bilancio dell’UE. È una stretta intesa tra agricoltura e società, tra l’Europa e i suoi agricoltori. Tra i suoi obiettivi ci sono sostenere gli agricoltori e migliorare la produttività agricola, tutelare gli agricoltori dell’Unione Europea per garantire loro un tenore di vita ragionevole, aiuto ad affrontare i cambiamenti climatici e a gestire in modo sostenibile delle risorse naturale, preservare le zone e i paesaggi rurali in tutta l’UE, mantenere in vita l’economia rurale promuovendo l’occupazione nel settore agricolo, nelle industrie agroalimentari e nei settori associati.

La pellicola – uscita il 27 febbraio e proiettata in anteprima al Parlamento europeo – ha riscosso un grande successo, come ha raccontato il co-regista alla fine della proiezione: “Una delle cose che ci ha colpito di più è il grande interesse dimostrato dal pubblico, grazie al passaparola e ai social media che hanno fatto diventare virale il documentario”. La docu-inchiesta, infatti, il 5 marzo registrava già un incasso pari a 8498 euro e gli account Instagram e TikTok hanno raggiunto oltre 6 milioni di impression. Il successo riscosso dalla pellicola è eloquente e dipinge lo stato attuale del dibattito politico italiano sull’ambientalismo e sull’attivismo ambientale.

A una prima visione del documentario tutto sembra coerente e lineare. Da una parte i cattivi: le istituzioni corrotte, le lobby dell’industria agroalimentare, gli eurodeputati che si dimostrano possibilisti nell’uso di ogm, gli allevatori che perpetuano violenze sugli animali. Dall’altra le vittime: le comunità dei territori limitrofi agli allevamenti, i lavoratori e le lavoratrici migranti, decine di migliaia di animali. A smascherare il sistema: Giulia Innocenzi e Pablo D’Ambrosi.

Per svelare le storture di questo sistema corrotto – in cui tutto il male è descritto come fine a sé stesso – Innocenzi e D’Ambrosi percorrono l’Europa bussando alle porte dei responsabili dei principali allevamenti intensivi che ricevono sussidi dall’Unione Europea, muniti di fotografie scattate dagli attivisti entrati sotto copertura in alcune strutture. Le reazioni da parte dei responsabili – approcciati per la prima volta con le telecamere puntate dritte in volto – sono intimidazioni, spesso minacce, perfino inseguimenti. Le foto mostrate ritraggono immagini di animali agonizzanti. Scene che non mancano anche all’interno del documentario, ma – come ha sottolineato il giornalista Ferdinando Cotugno in una recensione del film per Rivista Studio – “YouTube è già pieno di antologie di bovini picchiati, montagne di polli lasciati a marcire, maiali terrorizzati. Il cammino di autocoscienza di ogni persona che diventa vegana a un certo punto passa da lì”. La sofferenza del bestiame è l’elemento chiave su cui si articola l’intera proiezione, ma l’empatia nei confronti degli animali – come anche l’ecoansia – ad ora non sono bastati a innescare un cambiamento significativo e strutturale. È necessario provare a scavare più in profondità e articolare un pensiero più complesso, che sopravviva all’esaurirsi della tristezza per la sofferenza di bovini, ovini e pollame. “In questa sala ci sono molti adulti ed è difficile che cambieremo il modo di consumo da un momento all’altro”, ha commentato un’anziana signora presente in sala. Dopo aver visto questo film c’è chi continuerà a mangiare carne.

A fine proiezione, la sensazione che rimane è un’amara sfiducia nei confronti delle istituzioni, che fin dalla prima scena del documentario “ne escono male” – ha commentato D’Ambrosi durante il dibattito, chiarendo che il messaggio non era quello di disincentivare le persone al voto. “Noi non volevamo fare un film anti-europeista: crediamo nell’Europa e che sia fondamentale andare a votare a giugno”, ha aggiunto. Nella pellicola vengono messe sotto inchieste la PAC e il Green Deal, che nonostante le imperfezioni e le criticità rimangono ad oggi gli strumenti più concreti e strutturali a cui aggrapparsi per iniziare ad affrontare un cambiamento, seppur troppo lento rispetto ai ritmi con cui sta mutando il clima.

La docu-inchiesta, poi, banalizza altre tematiche. La reazione incredula alla frase di una lobbista che afferma “demonizzare in toto gli ogm mi sembra una demagogia” e il grande rimosso della sostenibilità economica nei processi di transizione ecologica sono punti che contribuiscono a evitare il contradditorio e rimuovere la complessità da “Food for profit”. “Questo film pare che venga strumentalizzato dagli allevatori contrari agli allevamenti intensivi, che promuovono il proprio business come alternativa. Virare su allevamenti estensivi, però, sarebbe impossibile, il pianeta non reggerebbe”, ha puntualizzato Grazia Cominato di CoVegan durante il dibattito. Le immagini di allevamenti estensivi, dove bovini e ovini pascolano in libertà, immortalati in una delle scene finali della pellicola, lasciano intendere di essere alternative preferibili rispetto a quelli intensivi, con i loro estesi prati verdi ritratti al tramonto. Una transizione di questo tipo sarebbe davvero più sostenibile?

Anche la questione dello sfruttamento lavorativo viene trattata in modo sommario: nel film vengono denunciate situazioni di persone migranti senza contratto, costrette ad accettare condizioni di lavoro degradanti. Si tratta però di persone spesso senza documenti, che, in attesa della certificazione necessaria, pur di lavorare vengono ingannati da offerte di lavoro “allettanti”, accettando mansioni pesanti e senza garanzie per 6€ l’ora, vivendo in appartamenti controllati dall’azienda, di sopportare condizioni di lavoro disumane. Denunciare le dinamiche di sfruttamento è giusto e va fatto ogni volta che è possibile, ma è necessario non appiattire il discorso a una polarizzazione tra vittime e carnefici, che contribuisce a ledere la dignità di quelle persone che stanno cercando nel lavoro un riscatto personale. Le tematiche legate all’industria della carne si sviluppano su diversi livelli, che spesso si intersecano tra loro, e ognuno ha bisogno di una seria riflessione.

Dal dibattito a seguito della proiezione, però, si sono iniziati a sciogliere alcuni nodi: sulle istituzioni, sulla sostenibilità economica di una scelta di vita vegana, sull’importanza di proporre un cambiamento “che può venire solo dal basso” – ha affermato D’Ambrosi –, ma che sia necessariamente accompagnato anche da un impegno istituzionale concreto. Al pubblico un messaggio è arrivato e ha stimolato un ricco dibattito tra persone giovani, anziane, di mezza età, che pur avendo approcci e visioni diverse, si sono ritrovate in una sala di un cinema a interrogarsi su questioni fondamentali per i discorsi ambientalisti. “Food for profit” non è un prodotto elaborato: il suo contenuto è semplice e alcune questioni vengono banalizzate, suscitando legittimamente l’astio da parte di chi cerca da anni di portare avanti istanze ambientaliste con tutta la complessità che si lega a questi argomenti. “Food for profit” sta lasciando un segno, e questo rivela i modi in cui siamo diventati incapaci di sostenere e assimilare narrazioni complesse, anche per colpa di anni di attivismo e politica di slogan.

Non esistono solo i buoni e i cattivi: esiste la responsabilità istituzionale e personale, i bisogni individuali e quelli collettivi che si intrecciano quotidianamente con la storia e la cultura di un Paese e con i suoi tentativi di adattarsi agli scenari globali. Questa complessità si riassume e si traduce in quello che abbiamo nel piatto, in un elemento così identitario – e anche per questo così difficile da ripensare – come è il cibo. Di “Food for Profit” resta un tentativo riuscito di scandalizzare e smuovere le coscienze. Il timore è che il discorso si affossi e si limiti a uno sforzo di empatia personale.

Emma Besseghini


Editing:
Maria Colonna
Daniele Molteni