Che cosa succede quando si chiude una scuola
A Como, la decisione di chiudere sei scuole storiche alimenta lo scontro tra parte della cittadinanza e l’amministrazione comunale, dando il via ad una battaglia senza esclusione di colpi. Mentre viene meno il dialogo tra Comune e società civile, le conseguenze ricadono sui soggetti più fragili: i bambini e le categorie svantaggiate.
di Emma Besseghini e Chiara Spallino
Inaugurazione della mostra nella scuola di via Perti in data 14 dicembre. Ph. Chiara Spallino
«Come sarebbe la via Perti in silenzio? Beh, pensarla così mi rende triste, noi in silenzio non ci stiamo mai!». Lo dice una voce di bambino in un video in bianco e nero, proiettato in un’aula della scuola elementare Nazario Sauro, in via Perti, a Como.
È la mattina del 14 dicembre, un sabato, ma la scuola è aperta lo stesso. Oggi infatti non ospita solamente bambini e personale scolastico, ma anche mamme, papà, fratelli maggiori, giornalisti e curiosi. Anche noi camminiamo tra le aule piene di striscioni, fotografie e ghirlande. L’intento è quello di far conoscere gli spazi e la storia dell’istituto a tutta la città e spiegare perché, secondo i movimenti dei genitori e degli insegnanti, la decisione di chiudere questa scuola sia affrettata e miope.
Le puntate precedenti
Tutto inizia – per via Perti e per altre primarie e scuole dell’infanzia di Como – a settembre, con un documento intitolato Piano di organizzazione della rete delle istituzioni scolastiche, inviato dal sindaco Alessandro Rapinese al presidente provinciale Fiorenzo Bongiasca. Nel testo si individuano una serie di criticità a livello di sicurezza e iscritti per sei scuole, sia in centro sia in periferia; si propone quindi una rapida «scansione temporale di chiusura o accorpamento».
Qualche settimana dopo, nonostante le prime proteste dei dirigenti scolastici, l’intenzione del sindaco viene confermata da una delibera, che prevede la chiusura nell’anno scolastico 2025/2026 delle scuole dell’infanzia Luigi Carluccio di via Volta, di quella di via Varesina e della primaria Nazario Sauro di via Perti, più l’accorpamento della scuola dell’infanzia di Prestino. Secondo questo piano, nel 2026/2027 sarà poi il turno della scuola dell’infanzia di Salita Cappuccini e della primaria Fulcieri Paulucci de Caboli di Ponte Chiasso.
La situazione è tesa, anche perché la delibera ha un precedente: a marzo, il sindaco aveva annunciato la chiusura degli asili nidi comunali Magnolia e di Monte Olimpino, generando subito il malcontento dei genitori. Nulla vale la proposta di un referendum popolare contro le chiusure, sostenuta da oltre 300 famiglie. «Non concerne materie di esclusiva competenza del consiglio comunale» e «concerne una materia [il dimensionamento scolastico, ndr] di competenza della giunta comunale e riguardo alla quale il consiglio comunale non esprime una proposta o un parere»: sono i virgolettati riportati da Como Zero come dichiarazioni della Commissione comunale che si è espressa sulla possibilità di indire il referendum, dando parere negativo.
Il dibattito pubblico, intanto, si fa più concitato, con gruppi di genitori e insegnanti che si oppongono in modo frontale alla decisione della giunta comunale. Tra le tante iniziative, le mostre nelle scuole di Via Perti e di Via Volta nella già citata mattinata di sabato 14 ottobre, insieme a un raccolta fondi per sostenere una serie di ricorsi. A inizio dicembre, arriva una notizia dal Tar di Milano, che contraddice il parere della Commissione comunale in merito alla chiusura dell’asilo nido Magnolia. Secondo il Tar, infatti, la competenza sui servizi di questo tipo era del consiglio, e non della giunta, e dunque la scelta è illegittima. Un elemento che anima ancor di più lo scontro tra società civile e potere politico, e riaccende in genitori e insegnanti un po’ di speranza.
Cartello di segnalazione di presenza di amianto nel giardino pensile della scuola di via Volta. Ph. Chiara Spallino
Numeri, fondi persi e amianto a sorpresa
Leggendo con attenzione i documenti diffusi dal Comune, in effetti, emergono alcune perplessità sulle scelte fatte dalla giunta, oltre ad una situazione diseguale tra le varie scuole oggetto della delibera. Un caso di cui si è parlato molto è quello dell’Istituto Scolastico Comprensivo Como Borgovico, che comprende scuole storiche, situate nel centro della città.
La scuola dell’infanzia Luigi Carluccio, ad esempio, a conti fatti non ha visto nessun calo di iscritti: con una capienza di 60 bambini, negli ultimi tre anni scolastici, ha sempre raggiunto il numero massimo di iscrizioni. Non solo: ha sempre avuto una lista d’attesa, come evidenziato peraltro anche dal portale ministeriale “Scuola in Chiaro”. Per quanto riguarda la scuola primaria Nazario Sauro di via Perti, invece, la situazione è diversa. «Nel 2019 avevamo circa 120 iscritti, oggi sono 98. Questo calo di iscrizioni però ci ha dato l’opportunità di sviluppare laboratori e ampliare le attività – afferma Grazia Miccolis, direttrice dell’Istituto Comprensivo Como Borgovico – Al momento potremmo ospitare una nuova classe, e con l’agibilità del secondo piano l’edificio avrebbe spazi sufficienti per accorpare scuola dell’infanzia e primaria, previo un adeguamento strutturale». L’edificio presenta infatti un piano superiore inagibile, che aspetta da anni di essere ristrutturato.
Chi si oppone alla decisione del Comune nota poi che il metodo di calcolo utilizzato per indicare la capienza non è preciso, sia per le scuole destinate alla chiusura sia per quelle che dovrebbero invece ricevere gli studenti rimasti “a casa”. Alla scuola Corridoni, ad esempio, il Comune segnala la presenza di 151 posti vuoti, che potrebbero essere occupati dagli alunni di altre scuole dopo le chiusure. «Se mi viene detto che un plesso è occupato solo per il 29%, proprio come nel caso della Corridoni – commenta Umberto Fumarola del Comitato Como a Misura di Famiglia – ma viene considerata nel conteggio l’area che include anche le aule dedicate allo sport, ai laboratori, alle segreterie, alla presidenza… allora è normale che la scuola sembri vuota, perché nel calcolo vanno considerati gli spazi dove si trovano solo le aule, non quelli dove ci sono anche i servizi accessori».
Qualche dubbio emerge anche per quanto riguarda i problemi strutturali. Se per alcuni edifici il tema è serio, per la Luigi Carluccio il Comune riporta criticità riguardanti gli infissi, strutture indebolite dalle infiltrazioni, e a una generale inadeguatezza degli spazi aperti. Eppure, secondo le insegnanti, questa fotografia non corrisponde alla realtà. «Certo, alcune parti sono datate e può capitare qualche infiltrazione – spiega Giusy Magnani, maestra della scuola Carluccio – ma come sa chiunque abbia frequentato il nostro edificio è molto curato e gli spazi aperti non mancano: abbiamo il cortile interno pieno di giochi, un giardino pensile, e una piccola area ombreggiata da un albero. Tempo fa, il sindaco è stato qui in una giornata di pioggia, convinto di trovare chissà quali danni. Di recente è anche arrivato un tecnico del Comune per mettere un cartello che avverte della presenza di amianto su un tetto vicino, salvo poi specificare, dopo la reazione dei comitati dei genitori, che non c’è pericolo per la salute».
Sempre secondo il Comune, per tutti i problemi sopracitati la messa a norma dell’edificio della Carluccio costerebbe 1.155.000 euro. «Ma nella valutazione dei rischi non abbiamo trovato riscontro per questa somma – dichiara in un video pubblicato ad ottobre Simone Molteni, presidente del consiglio d’Istituto Como Borgovico – e in ogni caso il Comune non ha prodotto alcun preventivo o alcuna scheda tecnica a supporto di questo dato».
Ultimo ma non ultimo, viene il tema dei fondi del Pnrr, sollevato sempre da chi lavora nelle scuole colpite dalla delibera della giunta. In tutte le scuole del Comprensorio Borgovico negli ultimi tre anni sono confluiti oltre 386 mila euro, grazie a bandi indetti dal Pnrr e da altri finanziamenti europei. «Questi fondi sono stati utilizzati dentro gli immobili o per acquistare arredi su misura, quindi non trasportabili in altre strutture – conclude Molteni – chiudere queste scuole significherebbe perdere tutti i soldi appena investiti».
Modellino di una classe realizzato dai bambini della scuola di via Perti. Ph. Chiara Spallino
Rimescolare maestre e classi
Ma lo scontento della società civile non è legato solo a queste inesattezze presenti nei documenti diffusi dal Comune. Secondo chi protesta, chiudere una scuola – in questo caso sei –, significa infatti anche cambiare tutto ciò che sta intorno a un servizio fondamentale, modificando il tessuto sociale della città. Questo vasto piano di razionalizzazione – proposto unilateralmente dall’amministrazione comunale – avrà delle ricadute sulle politiche familiari, sulla composizione demografica, e sullo sviluppo economico di Como. In una città che fatica a trovare un equilibrio tra il turismo e la qualità della vita dei suoi abitanti, la chiusura di sei scuole pubbliche si traduce in una diminuzione dell’attrattività per le giovani coppie, un calo del valore immobiliare dei quartieri interessati, e l’impoverimento culturale dell’area.
Proviamo allora a fare ordine tra le possibili conseguenze delle chiusure, partendo da un tema organizzativo non indifferente.
La chiusura degli dei plessi, infatti, non interesserebbe solo le maestre le cui scuole verrebbero chiuse, ma anche quelle delle altre strutture. Le 26 persone che lavorano all’interno della struttura Luigi Carluccio, per esempio, verrebbero trasferite e riallocate secondo un sistema di graduatorie. «Ogni maestra ha un suo percorso che si traduce in un punteggio, fatto di titoli e anni di servizio – racconta Grazia Miccolis – All’interno di un istituto comprensivo come il nostro, per ogni ordine esiste una graduatoria di istituto. In base al punteggio ottenuto le insegnanti vengono riallocate». Ad oggi, le ultime della graduatoria non sono le insegnanti di via Perti, ma quelle della Corridoni: le maestre di via Perti, quindi prenderanno il posto di quelle della Corridoni, che perderanno la cattedra.
In questo scenario sono tanti i bambini e le bambine che perderanno le loro maestre, e a cui di fatto verrà interrotto il percorso didattico. «I bambini della Sauro, così come sono compatti, potrebbero trasferirsi alla Corridoni – aggiunge la direttrice –, a quel punto potremmo mantenere le classi e le maestre, e far sì che loro rimangano sulle proprie classi. Questo però significa che le famiglie dovranno portare i figli alla Corridoni, che è distante, e io non credo che tutte ci seguiranno, per molte ragioni: per problemi logistici, organizzativi, familiari, o perché non hanno i nonni che li possono accompagnare a scuola».
La delibera comunale non prevede un’alternativa allo smembramento delle classi. «Se tu chiudi e non mi dai dove andare le classi si smembrano – chiude Miccolis – La possibile soluzione della Corridoni è una nostra proposta, ma crea dei disagi. Le famiglie potrebbero anche decidere di andare in via Brambilla, o in via Fiume, oppure optare per scuole private, come il Gallio, le Canossiane, o le Orsoline».
Disegno fatto da un bambino della scuola di via Perti. Ph. Chiara Spallino
In fuga dalla città?
Non si tratta infatti solo della chiusura di sei istituti scolastici, ma del futuro di 400 bambine e bambini di Como e delle loro famiglie, che nei prossimi due anni perderanno il loro punto di riferimento educativo, la scuola pubblica. Parliamo infatti del 20% degli alunni delle scuole dell’infanzia e del 6% degli studenti delle primarie della città. Numeri significativi per un centro urbano che secondo i dati Istat vedrà la sua popolazione calare del 3.3% nei prossimi 20 anni. A differenza degli altri capoluoghi lombardi – per i quali i trend prevedono una crescita della popolazione, seppur piccola – secondo le previsioni Como nel 2043 avrà perso circa 2778 persone residenti.
Il dato che davvero preoccupa il capoluogo lombardo, però, è un altro: il basso tasso di migratorietà, ossia il rapporto tra le persone che arrivano in città e quelle che la lasciano per spostarsi altrove. Tra gli indicatori che influiscono sullo spopolamento del territorio comasco, infatti, questo è il numero che peserà maggiormente sulla composizione della popolazione: tra il 2022 e il 2023 il numero di persone interessate a trasferirsi a Como è già sceso, passando da 894 a 537 unità. E a evitare di trasferirsi in città sono soprattutto le persone residenti in altri comuni del comasco, come riportato in un articolo de La Provincia.
In questo scenario, razionalizzare sembra la soluzione proposta dal Comune per adattarsi al problema del calo demografico. Ma il serpente si morde la coda: come può Como diventare più attrattiva per famiglie e giovani se diminuiscono i servizi? o meglio, forse la domanda giusta da porsi è un’altra: in questo modo, per chi sta diventando attrattiva questa città?
Il soggetto più fragile
Insieme alle questioni pratiche e logistiche, la chiusura delle scuole e tutto quello che ci sta intorno mina anche la continuità educativa e didattica di bambini e bambine. «È una questione fondativa per gli studenti e per il loro diritto a una scuola di qualità – racconta Alessandra Carenzio, professoressa associata di didattica presso l’Università Cattolica di Milano –. Ci sono 3 elementi da considerare. La prima è la stabilità emotiva del bambino: vivere in un ambiente prevedibile dove le cose stanno al loro posto, per un bambino, è importantissimo, perché dà la possibilità di creare spazi di fiducia e sicurezza. La seconda riguarda la costruzione di relazioni significative, necessaria per facilitare lo sviluppo sociale del bambino come persona, insieme al senso di appartenenza alla comunità. L’ultimo elemento riguarda lo sviluppo cognitivo: se ogni anno si cambia l’insegnante, che magari ha un metodo o un approccio didattico diverso dalla precedente, viene meno la continuità. Può esistere discontinuità educativa anche se non si cambia luogo».
Il tema riguarda gli studenti, ma anche le loro famiglie. «Poter contare su altre famiglie in caso di necessità, confrontandosi su scelte e valori, permette di creare una comunità che educa i bambini. Questo fattore promuove anche l’orientamento, dando la possibilità ai genitori di avere un riferimento anche all’interno dell’istituto – continua Carenzio –. È un luogo che ha sempre caratterizzato la vita dei quartieri. È un perno culturale, un patrimonio della comunità: quando passiamo davanti alla nostra ex-scuola non è come passare davanti a un supermercato: è un’esperienza che attiva una memoria, che è importante per il territorio stesso».
Non è difficile peraltro immaginare che a risentire di questa situazione – con classi più grandi e scuole più distanti – sarebbero soprattutto i nuclei familiari in condizioni di svantaggio economico, i bambini stranieri che hanno bisogno di più tempo e attenzioni per integrarsi, i padri e le madri single. L’aumento delle distanze tra casa e scuola, peraltro, peserebbe soprattutto sulle donne: da una parte, infatti, nel nostro Paese le madri dedicano tutt’oggi più ore alla cura dei figli, e quindi sarebbero maggiormente impattate da tragitti più lunghi; dall’altra, in genere le donne sono messe in difficoltà da qualunque modifica all’organizzazione cittadina che incentivi l’uso dell’auto, considerando che, rispetto agli uomini, si spostano maggiormente a piedi o con i mezzi, e compiono ogni giorno percorsi più complessi e frammentati, tra commissioni e cura di bambini e anziani.
Cartellone esposto nella scuola di via Volta. Ph. Chiara Spallino
Una comunicazione opaca
Se tutte le conseguenze della chiusura delle scuole di cui abbiamo parlato si collocano nel futuro, c’è un effetto di tutta questa vicenda che si muove nel presente: la sensazione di distanza, scarsa trasparenza ed impossibilità di dialogo che una parte dei cittadini ha percepito interagendo con la giunta comunale e con il sindaco Rapinese.
Il Comitato Como a Misura di Famiglia, nato a marzo 2024, ha riassunto così la questione il 10 ottobre, durante un’audizione presso la sede del Consiglio regionale della Lombardia: «ogni chiusura di scuola deve essere sempre considerata un’azione di estrema ratio, mentre in questo caso le motivazioni sono fragili e miopi. Riconosciamo che le scuole coinvolte sono variegate, ma tutte presentano una grande criticità; in nessun caso è stato condiviso a livello cittadino il futuro degli edifici svuotati dagli studenti e non è presente un’analisi economica a breve, medio e lungo termine della gestione di tali immobili».
È sulla stessa lunghezza d’onda Elena Ferrario, del settore Scuola e Formazione di Legambiente: «ogni anno Legambiente pubblica un report che si chiama Ecosistema Scuola, che elaboriamo con tutti i capoluoghi di Provincia italiani per fare il punto sullo stato di salute degli edifici. Como è una delle cinque città che non è presente nell’ultima edizione: è da due anni che non risponde. Questo è interessante, forse in città c’è un’idea di condivisione dei dati e informazione della cittadinanza un po’ discutibile».
Ferrario aggiunge: «da un punto di vista puramente numerico l’intervento di razionalizzazione sulle scuole può avere un suo perché, come ovviamente è fondamentale il tema della sicurezza. A livello di numeri, giusto per dare un’idea, potrebbe avere un senso ridurre gli edifici: per quanto riguarda primarie e infanzia Como ha 49 scuole, a fronte di 5.620 bambini. Facendo un confronto, altre città come Cosenza o Cremona hanno più di 6500 studenti e solo 34 o 35 edifici. Nel caso di Como, ci sono però alcuni punti che meritano un approfondimento: da una parte sappiamo come tante scuole in tutta Italia abbiano appena ricevuto dei fondi Pnrr, che sarebbe strano perdere, dall’altra ci sono sicuramente tantissime altre aree e istituti decisamente più in difficoltà rispetto a Como, con edifici molto più danneggiati. Una cosa è certa: l’aspetto delicato è quanto la scelta sia avvenuta in modo partecipato con le scuole e le famiglie, perché si tratta di un servizio e dunque è importante decidere insieme». La mancata comunicazione tra giunta e città porta peraltro le persone a fare ipotesi e leggere tra le righe; c’è chi dice, ad esempio, che siano stati scelti per le chiusure solo gli edifici facilmente rivendibili, per la loro posizione privilegiata o le particolarità della loro struttura.
«La scuola non è solo un contenitore – riflette Ilaria Flauto, insegnante della scuola di via Perti, circondata dai visitatori della mostra – è anche tutto quello che c’è dentro e i servizi che fornisce. Spostare una primaria o una scuola dell’infanzia ha conseguenze tangibili per chi vive vicino e non ha un’auto, oppure per i bambini che passano tanto tempo con i nonni. Soprattutto, però, il problema in tutta questa vicenda è subire una decisione dall’alto: le scuole vanno ristrutturate ed adeguate, non chiuse con scelte improvvise. Per tutti la delibera del Comune è stata un fulmine a ciel sereno: per gli insegnanti, per i genitori e anche per i più piccoli, che devono crescere avendo la possibilità di sentirsi parte di qualcosa e vivendo davvero il proprio quartiere».
Proprio uscendo dalla scuola di via Perti, dopo l’inaugurazione di sabato 14 dicembre, abbiamo trovato per terra un foglietto di carta rosa. «Se fossi sindaco, riempirei la città di parchi giochi e librerie!», c’era scritto. Firmato: “I bambini delle scuole”.
Emma Besseghini
Chiara Spallino