5 ottobre 2024

Punirne migliaia per educare tutti gli altri – Una cronaca dalla manifestazione del 5 ottobre a Roma

Sabato 5 ottobre si è tenuta a Roma a Piazzale Ostiense una manifestazione nazionale per la Palestina per chiedere la fine dell’occupazione, del genocidio e del supporto che il governo italiano fornisce a quello di Israele. A queste rivendicazioni si è aggiunta la protesta contro la recente invasione del Libano e il DDL 1660, il cosiddetto “decreto sicurezza”, strumento di repressione delle proteste attualmente al vaglio del Senato. E la protagonista della piazza è stata proprio la repressione.

In Italia non esiste la “manifestazione autorizzata” ma l’obbligo di preavviso in questura del presidio o del corteo organizzato. Deve essere fatto entro 48 ore dal suo svolgimento e bisogna comunicare con questo data, orario, luogo, numero di partecipanti previsti, motivazioni e altri aspetti contingenti. Esistono però anche divieti a manifestare con provvedimenti diretti del questore o del prefetto qualora si presentino condizioni critiche di sicurezza o si dimostri la presenza di reati (per esempio la volontà di rifondare il partito fascista). 

  • Celere

Nome con cui si usa chiamare i Reparti Mobili della Polizia di Stato, gruppi delle forze dell’ordine specializzate e addestrate appositamente per gestire situazioni considerate a rischio per l’ordine pubblico come manifestazioni o eventi sportivi. Hanno in dotazione un ampio equipaggiamento composto da bardature rinforzate, scudi, manganelli, cannoni ad acqua, lacrimogeni e fucili a proiettili di gomma.

È una misura di prevenzione personale, ovvero un provvedimento applicato dal questore o dall’autorità giudiziaria con lo scopo di evitare che un soggetto considerato socialmente pericoloso possa compiere reati. Tale provvedimento limita la libertà di movimento, impedendo al destinatario di tornare nella zona di emissioni per un periodo non superiore a tre anni. 

  • Idranti anti-sommossa

Detti anche “cannoni ad acqua”, sono parte dell’attrezzatura per la dispersione delle manifestazioni. Sono dei mezzi di grosse dimensioni capaci di sparare acqua ad alta pressione, in grado di colpire e destabilizzare il bersaglio. È stata dimostrata la pericolosità del loro getto, che può portare a traumi permanenti. 

  • Lacrimogeni

Anche questi parte dell’arsenale anti-sommossa in dotazione alle forze dell’ordine, sono candelotti contenenti gas CS che causa lacrimazione e irritazione delle vie aeree. La loro pericolosità sta sia nel contenuto chimico che nel lancio, che arriva a velocità tra i 75-150 m/s e che può quindi arrecare danni fisici ingenti se lanciato direttamente addosso. Una volta azionato, poi, raggiunge temperature molto elevate. Viene per questo considerato non un’arma non-lethal, bensì less-lethal da un’indagine di Amnesty International, che ha raccolto anche numerosi casi di suo utilizzo in tutto il mondo.

Prima della manifestazione

Il tentativo da parte di governo e amministrazione comunale di ostacolare in qualsiasi modo la manifestazione è partito prima, quando la questura di Roma non ne ha concesso l’autorizzazione, per ragioni ideologiche, più che di sicurezza. Come ragione è stata addotta la designazione del 7 ottobre 2023 come l’inizio di una rivoluzione nel comunicato di lancio. Parallelamente, però, sono state vietate anche altre manifestazioni previste per l’anniversario dell’intensificazione del conflitto, anche senza questo aspetto di rivendicazione esplicito, come la fiaccolata a Torino per le vittime civili di Palestina e Libano, il presidio a Bergamo e quello a Brescia (tutte tra l’altro tenutesi nonostante i divieti). I divieti sono giunti secondo i vari gruppi organizzatori su direttiva governativa, nel tentativo di evitare le narrazioni che non considerano primariamente il 7 ottobre come il giorno del lutto israeliano, ma l’inizio di una nuova sofferenza per le popolazioni arabe della regione. Il divieto alla manifestazione nella capitale è comunque stato confermato dal TAR, al quale si era tentato di fare ricorso. Dopo i divieti, la Comunità Palestinese, che era tra gli organizzatori, ha deciso di rinviare la piazza al 12 ottobre nello stesso lungo. UDAP (Unione Democratica Arabo-Palestinese), GP (Giovani Palestinese) e API (Associazione dei palestinesi in Italia) hanno invece deciso di non annullarla, ma anzi di rilanciarla facendo appello al diritto di protesta e denunciando le limitazioni come forme di “censura politica” e repressione. Ad alimentare questo clima è stato lo stesso ministro degli interni, Matteo Piantedosi, che ha dichiarato il 4 ottobre: “chi manifesta domani a Roma è illegale”.

Sabato sono stati schierati più di 1000 agenti che hanno effettuato controlli a tappeto identificando chi passasse per i caselli dell’autostrada, usasse le stazioni e cercasse di entrare nel piazzale. Le identificazioni sono state oltre 1600. Sono state fatte anche perquisizioni e sequestri di materiale, tra cui striscioni. A seguito dei controlli sono stati emessi almeno 50 fogli di via verso i soggetti ritenuti pericolosi per via dei loro precedenti penali e 150 altri manifestanti sono stati scortati indietro dalle forze dell’ordine per non farsi identificare.

Infine, a completare l’impianto repressivo è stata la disposizione della polizia. In un piazzale con sette diversi accessi, ognuno era chiuso da una fila di camionette corazzate che erano posteggiate in modo da impedire il passaggio perfino di una singola persona, appoggiandosi anche ai muri storici dei monumenti. In altri casi, le forze dell’ordine hanno montato ad hoc addirittura delle palizzate metalliche. Come può far sentire essere circondati senza via di fuga dai rappresentanti armati di quelle stesse istituzioni che si stanno criticando? In particolare quando sono le stesse forze dell’ordine che fanno espressa richiesta tramite i sindacati di aver accesso a strumenti di repressione maggiori, ovviamente concessi.

Lo scontro da dentro

Nonostante tutti questi ostacoli, almeno diecimila persone, secondo gli organizzatori, sono riuscite a radunarsi in un Piazzale Ostiense gremito di bandiere delle decine di associazioni, partiti e collettivi che avevano aderito alla manifestazione.

Dopo ore di presidio, di interventi e di dialogo, si è richiesto nuovamente alle istituzioni di concedere il corteo permettendo alla manifestazione, fino a quel momento del tutto pacifica, di fare quello per cui era stata chiamata: ricordare i crimini compiuti da Israele e la corresponsabilità del governo italiano tramite il suo supporto materiale e diplomatico. Il permesso non è arrivato. Allora, al coro di “corteo, corteo”, la piazza si è mossa, ma è stata costretta ad un umiliante girotondo nello spazio concesso passando inutilmente di fronte a tutti i blocchi posti dalla polizia.

Ad un certo punto la testa della manifestazione formata da giovani e non, i più a volto scoperto, ha provato a forzare la barricata di fronte a via Ostiense. La Guardia di Finanza ha risposto all’inizio con scudate e manganellate, e poi con il lancio di lacrimogeni che è avvenuto ben prima del lancio di pietre dei manifestanti. I lacrimogeni, poi, sono stati tirati ad altezza uomo, cosa che li ha resi doppiamente pericolosi. Ma non solo: sono stati sparati addirittura in mezzo a chi stava più indietro nel corteo come molti anziani e famiglie con bambini, una componente della piazza a cui si è dato poco risalto.

Come reagirà una folla, chiusa in trappola su tutti i fronti, in una situazione del genere? Con la rabbia e la paura. C’è stato chi ha ricorso alla sassaiola, per provare a fermare i colpi sparati rilanciando i lacrimogeni ai mittenti. C’è stato chi, invece, preso dalla frustrazione, si difendeva con gli unici strumenti a sua disposizione: pali, bottiglie, addirittura una chitarra. Sullo sfondo un fuggi-fuggi generale, che in una situazione di calca e panico provoca solo più agitazione e disordine.

Le forze dell’ordine hanno allora deciso di azionare gli idranti, sparare altri lacrimogeni e sguinzagliare la celere, che alla carica ha iniziato a colpire qualsiasi persona a tiro, poco importava se fosse violenta o meno. Si è continuato così, schiacciando i manifestanti contro altri cordoni di polizia che tutto facevano fuorché dare sicurezza, inseguendoli con le camionette degli idranti e continuando con il lancio di lacrimogeni. Alla fine sono stati concessi dei piccoli corridoi tra i blocchi per permettere il deflusso al di fuori della piazza.

Infiltrazioni

Una delle narrazioni più ambigue sulla manifestazione è stata quella sulle cosiddette infiltrazioni,denunciate perfino prima che avvenisse: un chiaro simbolo della strumentalizzazione in atto.

Il discorso è in realtà più complesso. Lo scontro con le forze armate è un atto politico, e come ogni forma in cui la politica si esprime, è giusto e doveroso discuterne, e, se necessario condannarlo. Anche se, a parere di chi scrive, la non-violenza, se considerata come l’unica forma legittima di protesta, non permette una vera contestazione dello status quo. Ma resta il fatto che, comunque si valuti il ricorso al conflitto, sia necessario riconoscerne e rispettarne le cause: i bisogni sociali e lo stato emotivo a cui sono confinati tutti coloro che sempre più vengono marginalizzati e resi impotenti di fronte a un potere che appare inamovibile perfino nelle sue decisioni più criminali e disumane.

Demonizzando lo scontro non si fa altro che alimentare la rappresentazione tossica bipolare del bene e del male in questo caso incarnata dai ruoli del pacifico e del violento: in questo senso chi protesta in modo pacifico è visto come degno di ascolto e considerazione, mentre chi lo fa in modo conflittuale no. È una dicotomia che serve a rinforzarne un’altra, quella sterotipica tra oppressore e vittima. Quello della vittima diventa allora un ruolo nel quale chi protesta deve rimanere, senza possibilità di riscatto che non sia calato dall’alto. Nel momento in cui la vittima pretende invece di agire attivamente e far sentire la sua voce, scontrandosi quindi, necessariamente, con il muro del sistema repressivo in cui vive, sfocia nell’illegittimità. Rompe la narrazione che la vorrebbe povera, innocua e innocente, adatta ad essere fotografata per le prime pagine dei giornali. Questo almeno agli occhi di chi adotta un approccio puramente umanitario, che è problematico perché sicuramente non è politico e menchemeno decoloniale. Si limita ad una solidarietà solo retorica che rifiuta ogni processo trasformativo dal basso in contrasto con le dinamiche violente che lui stesso critica.

Ignorare che il tentativo di forzare i cordoni delle forze dell’ordine sia stato degli stessi gruppi palestinesi organizzatori difficilmente considerabili infiltrati e che, per di più, loro stessi abbiano rifiutato di condannare le violenze dei manifestanti, dimostra la coerenza della manifestazione che, fin dai divieti imposti, si è proposta come fortemente conflittuale e antagonista. Pensare che la violenza generi la repressione è una lettura ribaltata, che ignora l’ovvio fatto che al diminuire dello spazio libero di confronto ed espressione sotto la minaccia di ripercussioni legali, il dissenso, punito nelle sue espressioni più dialoganti, necessariamente si radicalizzerà, resistendo con gli strumenti che ha.

Che una manifestazione finita in guerriglia urbana possa essere il pretesto per parlare di “cura della piazza”, ovvero la commisurazione della conflittualità in base alla conformazione dello spazio, allo schieramento delle forze dell’ordine e alla necessità dell’atto, ponendo attenzione su tutt* coloro che non vogliono parteciparvi attivamente, è più che giusto. In fin dei conti la base della politica dal basso è una costante critica alle pratiche messe in atto finalizzata a permettere una partecipazione più larga e sicura. La critica diventa però problematica quando finge di non capire di chi sia la responsabilità del livello di violenza agito. Un atteggiamento del genere ricorda da vicino il modo in cui si criticavano i partigiani, accusati di provocare i rastrellamenti nazi-fascisti sulla popolazione.

Jacopo Pozzoni
Editing: Riccardo Soriano