20 days in Mariupol

La recensione di Daniele Molteni

Quando l’esercito russo ha preso il controllo della città di Mariupol nel maggio 2022, dopo circa tre mesi di assedio dall’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina del 24 febbraio, le Nazioni Unite hanno stimato che il 90% degli edifici residenziali era stato danneggiato o distrutto e 350.000 persone costrette a lasciare la città. Almeno 25.000 sarebbero invece quelle uccise.

Colpita incessantemente da bombardamenti aerei e dall’artiglieria nelle prime fasi della guerra, con le comunicazioni interrotte e senza più cibo e acqua, la città è stata oggetto di attacchi a obiettivi civili, tra cui ospedali e luoghi culturali, per poi venire occupata definitivamente con la presa dell’acciaieria Azovstal. Da allora, a differenza di altre città poi liberate, Mariupol è passata stabilmente sotto il controllo del Cremlino e oggi è oggetto di una ricostruzione presentata a fini propagandistici come modello di gestione virtuoso di rinascita – con tanto di discusso murale dello street artist Jorit recentemente cancellato.

A distanza di due anni da quando le forze russe assediarono Mariupol – già teatro di una dura battaglia nel 2014 tra i separatisti filorussi, la Guardia nazionale ucraina e il Battaglione Azov – per continuare a mantenere accesa l’attenzione almeno a livello locale e mostrare vicinanza alla popolazione civile, il 2 maggio al cinema Astra di Como è stato proiettato il documentario “20 Days in Mariupol” del regista ucraino Mstyslav Chernov. Una produzione di Associated Press (AP) e Frontline PBS che ha visto l’apprezzamento di pubblico e critica per un lavoro che ha vinto numerosi premi, tra cui il Pulitzer nel 2023 e l’Oscar per la sua categoria nel 2024.

 
Il documentario ripercorre i giorni di assedio della città capoluogo del distretto di Doneck affacciata sul mar d’Azov, dalla grande importanza strategica per il suo porto e la sua industria pesante di ferro e acciaio, cruciale per le linee di rifornimento russe per la vicinanza con la Crimea occupata nel 2014.20 Days in Mariupol” è un film in presa diretta la cui unica aggiunta è la voce fuoricampo del regista, che con le proprie riflessioni e analisi ci guida dentro un assedio raccontato quotidianamente, in un conto alla rovescia che cala lo spettatore negli orrori della guerra.

Molte delle immagini che vediamo sono state riprese nelle prime settimane del conflitto da giornali e telegiornali di tutto il mondo: Chernov e i suoi colleghi di AP, Evgeniy Maloletka, Vasilisa Stepenenko e Lori Hinnant sono rimasti gli unici giornalisti con legami internazionali in grado di informare il mondo esterno sugli eventi di questa linea del fronte; gli unici ad avere la possibilità di smentire la propaganda russa che ha negato gli attacchi verso obiettivi civili, o che per gli stessi attacchi ha incolpato i “nazisti ucraini”, adducendo una presunta presenza di combattenti nemici dentro un ospedale pediatrico e un teatro. Una strategia simile a quella che più di recente ha adottato anche il governo israeliano per giustificare i bombardamenti a ospedali e quartieri residenziali nella Striscia di Gaza.

Le immagini mostrate da Chernov sono crude perché mostrano senza filtri la guerra e i suoi effetti su bambini, adolescenti, donne incinte, adulti e anziani. Come scrive Gianluca Arnone su Cinematografo questa “non è pornografia del dolore perché non è mai solo mostrato, esibito. Ma compenetrato, vissuto, accolto. È un lavoro che, mentre espone, ci espone, aggredendo il nostro bisogno di sicurezza, le comfort zone, l’anestetico meccanismo del distanziamento per immagini”. Se della guerra il più delle volte ci appare “normale” la vista di edifici distrutti e persone che fuggono, assistere alla morte in diretta con l’evidenza di ciò che l’ha causata non è qualcosa di frequente e riduce la distanza tra l’umanità colpita e quella che guarda. Anche in questo caso viene in mente Gaza e le immagini mostrate dai giornalisti palestinesi come Motaz Azaiza, Plestia Alaqad, Mohammed Jadallah Salem e altri.

Non solo un racconto di questo tipo indigna – come è stato evidente dagli occhi lucidi e dalle mani portate di frequente alla bocca e al volto dalle persone presenti in sala – ma provoca rabbia per il senso di impotenza che emerge dal vedere persone innocenti pagare il prezzo più caro del doloso e crudele fenomeno che è la guerra. 

Indignazione, rabbia ma anche solidarietà sono i sentimenti che muovono l’operato di Giambattista Mosa e Nicola Gini, volontari dell’associazione Frontiere di Pace della parrocchia di Maccio di Villa Guardia, che hanno co-organizzato la serata e sono intervenuti al termine della proiezione al Cinema Astra. Prima in Polonia e poi in Ucraina, dalle città occidentali fino a quelle orientali di Kharkiv, Odessa, Kherson, Kramatorsk e Izjum, insieme a Padre Ihor Boyko, rettore seminario greco-cattolico di Lviv, i volontari di Frontiere di Pace hanno portato aiuti umanitari svolgendo circa trenta missioni dall’invasione del febbraio 2022 ad oggi.

“Durante le nostre missioni abbiamo portato aiuti e vicinanza alle persone, ascoltando le loro difficoltà e i loro bisogni per portare un po’ di normalità” – dice Giambattista Mosa, coordinatore dell’associazione che fa parte del coordinamento a sostegno dell’Ucraina nato a Rebbio per iniziativa di Don Giusto Della Valle –. “Dalle loro parole traspare chiaramente il timore di essere dimenticati ma anche la volontà di resistere e se necessario anche di sacrificarsi”.

“Penso sia importante continuare a raccontare le loro storie per mantenere alta l’attenzione verso ciò che sta succedendo”– sottolinea Nicola Gini, volontario dell’associazione e giornalista –. “Per questo motivo le numerose storie che abbiamo ascoltato verranno pubblicate in un libro i cui proventi andranno a finanziare gli aiuti, per le persone che hanno subito le conseguenze della guerra e quelle che ancora si trovano minacciate e in difficoltà”.

In un editoriale sulle proteste nei campus americani per il ‘cessate il fuoco’ a Gaza di queste settimane, la scrittrice Zadie Smith ha scritto sul New Yorker che “il ruolo del ‘più debole’ non è una questione esistenziale indipendente dal tempo e dallo spazio, ma piuttosto una situazione contingente, continuamente soggetta a mutamento”. Una considerazione che vale anche a proposito del conflitto russo-ucraino: si può infatti mettere in luce la corruzione e i crimini di un governo sempre più fascista e autoritario come quello di Putin, dove i più deboli sono gli ucraini colpiti e la stessa società civile russa contraria alla guerra e perseguitata; ma allo stesso tempo evidenziare la corruzione in Ucraina degli ultimi decenni, i comprovati crimini del 2015 e 2016 da parte di militanti ora inquadrati nell’esercito, come i battaglioni Azov e Aidar, dove i più deboli sono gli appartenenti alle minoranze politiche attaccate.

Quello che rimane delle parole dei volontari di Frontiere di Pace, così come del racconto di Chernov dentro una sala piena e alla presenza di molti ucraini e ucraine, è che il popolo ucraino non è assimilabile a frange di neonazisti (come viene sostenuto dall’inquilino del Cremlino) e che l’analisi geopolitica della guerra troppo spesso descrive il mondo come un Risiko, dimenticando le persone civili che loro malgrado la abitano. Mentre questo conflitto si trascina nel suo terzo anno e altri infiammano un mondo sempre più frammentato, Mstislav Chernov con “20 Days in Mariupol e i volontari di Frontiere di Pace con la loro esperienza e il loro operato aiutano a non farci dimenticare l’orrore delle bombe ma anche l’importanza della solidarietà verso le persone che continuano a morire e soffrire. “Il mio cervello vuole dimenticare ma la mia videocamera non glielo lascerà fare”, afferma Chernov durante il film, con una dichiarazione che sottolinea il ruolo del giornalismo come strumento con cui gettare luce sulla verità, al di là dei rischi che si corrono e facendosi carico del dolore degli altri a cui assiste, per smascherare gli orrori del potere e le menzogne della propaganda di chi lo detiene.

Daniele Molteni

 

Editing:
Emma Besseghini